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    Wali, che ha rifiutato il Paradiso per non uccidere

    libro waliQuanto è lontano l’Afghanistan? Più lontano della luna, sembrerebbe…
    Un pianeta grigio e pietroso su cui neppure vale più la pena di sollevare lo sguardo. Certo, capita di vederne brani, come squarci di paesaggi lunari di macerie, negli occhi e nella carne della sua gente martoriata. Ottomila le vittime solo quest’anno, e quasi tremila sono bambini, è la denuncia di Emergency. Ma per noi spesso sono solo numeri…
    Eppure qualcosa può sempre cambiare, quando a quei numeri riusciamo a dare un nome e un volto. Ed è quello che ci aiuta a fare Atai Walimohammad, Wali per gli amici, fuggito dal paese ‘liberato’ dagli Usa (pronti oggi a un ambiguo ritiro) e venuto a vivere in Italia.
    La primavera scorsa ci ha raccontato gli anni terribili dei bambini bomba e il prima ormai dimenticato (https://www.remocontro.it/2018/04/08/wali-e-lafghanistan-talebano-dove-ora-volano-i-bambini-bomba/). Oggi ci invita a non dimenticare il suo paese con un libro in cui narra la sua storia. “Ho rifiutato il paradiso per non uccidere” (firmato insieme con Rosario Lubrano). La storia di un “infedele” che per il cammino della propria vita non ha visto altra via che quella indicata dal padre, Atta Mohammad, che era medico, psicologo, aveva come unico credo la conoscenza e la cultura, e per questo è stato ucciso.
    “L’eredità di tuo padre è rimasta in te!”, ha tuonato l’imam del villaggio, il giorno in cui Wali aveva portato da leggere un libro scritto dal padre, che raccontava a quale prezzo, fra gli anni ‘50 e ‘60, le donne d’Afghanistan avessero vinto il diritto a non portare il velo, e ricordava la conquista dell’uguaglianza fra uomini e donne proclamata dalla nuova costituzione… Il mondo, descritto da quel padre “comunista e infedele”, poi andato in frantumi.
    Wali ha subito capito che, contro tutto e contro tutti, quell’eredità l’avrebbe per sempre portata nel cuore.
    “Cara mamma, sono tuo figlio, Walimohammad. So che la gente ti insulta a causa mia, so che ti chiamano la mamma dell’infedele e non hanno rispetto nei tuoi confronti. Mamma, quando Rashida la nostra vicina di casa che mi insegnava il Corano è stata lapidata, io ero lì. I suoi figli, i miei amici, Tiryal e Arman erano presenti. Li hanno costretti a lanciare pietre…”
    E racconta che non è più andato alla Madrassa dove insegnano ai bambini a fare attentati, e quanto “mi fa male pensare che a te non avrebbe fatto male se mi fossi fatto saltare in aria”.
    Spiega, nel suo narrare, Wali, come si costruisce un bambino bomba, come si insegna l’odio e si uccide la cultura, come si conquista un biglietto per il Paradiso… Sullo sfondo di un paese invaso, trasformato, con il pretesto della guerra al terrorismo, in un inferno. “Un altro esperimento fallito. (…) E i talebani oggi sembrano essere più forti, mentre le forze internazionali, guidate dagli Usa, piano piano si ritirano, con la sciocca presunzione di lasciare un paese migliore di come l’avevano trovato”.
    Un racconto pieno di nomi e volti. Di uomini, donne, bambini, mullah, shaeed (martiri) e vedove nere… Profili femminili, soprattutto, emergono nella descrizione di un paese che “non è un paese per donne”.
    Bellissima la figura della nonna, “alta e magra, con grandi occhi neri e bei capelli neri”, che non andava molto d’accordo con Khruza, la madre del piccolo Wali, perché “era di mentalità più aperta rispetto a mia mamma, che sembrava più preoccupata del mio futuro nell’aldilà piuttosto che di quello qui in terra”.
    Nonna Suraya, che gli narrava storie di re e di tribù, della tribù pastho, alla quale la sua famiglia appartiene, e di tutte le altre, di ricchi e di poveri, che “devono combattere duramente per i propri diritti, come dovrai fare un giorno anche tu”. Dolcissimo il ricordo dei giorni in cui accompagnava il nipotino a far volare aquiloni di carta blu rossa e verde brillante nel cielo sopra il villaggio, dove sempre “c’erano più aquiloni che uccelli”, ed era una maestra, quando capitava che gli aquiloni si intrecciassero l’un l’altro, a liberarne i fili in modo che ognuno “salisse e si arrampicasse per poi svanire”.
    Gli occhi neri della nonna e il profumo dolce della mamma che per uscire indossa il burqa che pure odia (“ma devo indossarlo perché altrimenti mi è impossibile fare il mio lavoro”). Khruza, che non vorrebbe far leggere al suo Walimohammed tutti i libri del padre, per evitare di fare la sua fine.
    E poi Shiema, che si è impiccata a una trave di casa, per sottrarsi a un matrimonio che non voleva…
    E poi Salma, sorella maggiore di Wali, il cui scopo nella vita, dopo il suicidio dell’amica Shiema, è quello di liberare le donne afghane, nonostante le minacce che riceve, dai talebani e dalla gente del suo villaggio.
    Spiega, Wali, che se ora qualcosa, a poco a poco, sta cambiando, questo riguarda soprattutto Kabul. Ma in tutto il resto del paese la violenza contro le donne è tanta e i suicidi in costante aumento.
    Leggendo di Suraya, Salmi, Shiema…
    e poi di Said, bambino bomba, e di Haneef, martire tornato a casa in una bara, e di Masahood, l’orfano più coraggioso del villaggio…
    Quanti nomi, quanti volti ci regala Wali, mentre racconta come ha rifiutato il Paradiso per fuggire dall’inferno che, fra conflitti etnici e invasioni, è diventato il suo paese, per posizione strategica crocevia di interessi d’altri. E cosa vuoi che conti la vita della gente per i signori del grande gioco della politica internazionale…
    Un pensiero e tanti auguri per l’anno che verrà a Walimohammed e al suo lacerato paese, che sempre porta nel cuore. L’Afghanistan dove, come raccontano i medici di Emergency, il programma per questo Natale è restare vivi. Sperando in quelli che verranno…
    A Wali che ancora racconta e testimonia e grida perché i nostri occhi vedano, le nostre orecchie sentano quello che non vediamo e sentiamo più…

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