se allungare il mio braccio potessi / di sessanta metri, ti tocco. / Gli occhi mi ridono in un pianto / è troppo forte la luce ch’emani, / alle narici mi arrivano gli odori / che cuore e cervello mi infiammano, / e quanti doni mi porti all’udito / il vento… o bosco, che fra le tue fronde / si culla e ti canta qualcosa, / ti sussurra pian piano all’orecchio / fai finta di niente, ma guarda / quel vecchio che sta alla finestra / che soffre, ma ti guarda estasiato…
il canto di Mario, dunque… tre pagine fitte fitte di gioia inattesa e della tristezza di sempre, e sembra, questa gioia improvvisa, dono che possa all’improvviso essergli rubata via… per questo forse mi legge le parole a voce bassa bassa. Per paura, ho pensato, che qualcuno ascoltando provveda… Da quella cella, e da quella finestra, dopo qualche giorno, mi dice, è stato spostato, e gli alberi ora sono un po’ più lontani… ma ancora li vede, e li ascolta… e ancora “… sento le rane alla sera gracidare, / e i grilli che fino al mattino / accompagnano i miei sogni turbati…” . Vi leggerò, se volete, più in là, l’intero canto che, anticipo, rimanda alla fine a citazioni dall’Iliade. Perché Mario Trudu ( non lo avevo ancora detto?) a suo tempo ha letto l’intero poema e ne ha fatto una registrazione, con la sua voce, in lingua sarda, naturalmente… Ma venendo all’oggi. E’ indescrivibile la gioia punteggiata di poche parole, con la quale l’ho visto sfogliare le prime bozze del suo libro… (…) pagina per pagina… non ne ha saltata una… Solo per questo è valsa la pena di essere arrivati fin lì. A beccarmi anche, a suo modo, un bel complimento. Perché quando ha visto che i suoi affannati tentativi di dissuadermi dall’affrontare le scomodità di quel viaggio erano andati a vuoto, mi ha detto qualcosa a proposito dei muli. Della loro intelligenza, anche, della loro ostinazione, soprattutto. Insomma, il mulo sarei io, se bene interpreto… So che per Mario che sa apprezzare, per un verso o per l’altro gli animali, ripeto, è complimento… e a questo punto non mi resta che abbracciare volentieri l’immagine del mulo, anche se ho sempre avuto piuttosto maggiore simpatia, e propensione, per gli asinelli…
Tutto bene, dunque. A parte un piccolo imbarazzo, da parte di Mario, per via che era senza cappello. Insomma senza la sua coppola, il berretto sardo con il quale ben piantato in testa fino ad allora si era sempre presentato. Ma ogni istituto ha le sue regole. Qui non è ammesso quel cappello. Possibile allusione, mi spiega, a codici di comando mafiosi… Non era mai stato, mi dice, a capo scoperto… non sono proprio abituato … e la cosa lo imbarazza un po’… mah! pazienza.. sospira… C’è da dire che invece nell’Istituto di San Gimignano non si mangia male, e mi dice, lui che ( ricordate?) ha scritto interessanti ricette per il nostro “Cucinare in massima sicurezza”. E da quando si trova lì non ha ancora ritenuto di doversi cucinare nulla… E infatti un po’ più rimpinguato l’ho trovato.
Ah, dimenticavo. A tratti sul nostro piacevole parlare del più e del meno fra una pagina e l’altra del libro, scendeva dall’alto un forte rumore, come di ferraglia, come di cumuli di ferro rovesciati… lavori in corso, ho pensato… No, è la battitura, spiega Mario. La battitura, cito una definizione da internet, è uno dei compiti degli agenti di custodia che in genere più volte al giorno -all’ora del cambio di guardia- entrano in cella e con una spranga di ferro battono sulle inferriate e sulla retina metallica della finestra. Un controllo anti-evasione, insomma. Ecco così una parola fino a ieri per me di carta, è ora ferro e rumore. Rimbombo piuttosto inquietante… bisogna davvero provarle le cose, per capire… Bisogna guardarli, per capire, i volti nell’ombra intravisti, attraversando la sezione per uscire, di là dai cancelli che chiudono al corridoio le scale che portano su alle celle… le mani aggrappate alle sbarre… e dietro buio. Bisogna sentire su di sé il loro sguardo prigioniero… per capire di cosa a volte parliamo…
Comunque infine all’aria. E prima ancora di uscire dal confine del carcere, gli ampi spazi anticipano l’esterno, alcune aiuole rimandano al verde che è fuori le mura di cinta…, e l’aria (complice, credo, la “leggerezza” di chi ho incontrato fra chi lì dentro lavora) sembra già quasi respirare serena…