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    Un racconto… 6

    Non c’era tempo da perdere. Dovevo cercare per ciascuno una soluzione prima che fosse troppo tardi, prima almeno dell’esaurimento delle riserve di latte e caffè che i miei ospiti sembravano apprezzare con eccessivo gusto. Ho quindi elaborato un piano che la mattina seguente ho democraticamente sottoposto loro. Il piano è stato approvato. In base a un incontestabile diritto di precedenza il primo tentativo è spettato a Boh. Così Boh ha varcato il confine di carta di queste pareti. Si è voltato a guardarci salutarlo sulla porta. Ha abbozzato uno sguardo di sfida ma non è riuscito a nascondere il battito di tensione delle ciglia. In bocca al lupo, l’ho incoraggiato. In uno zainetto aveva tutto l’occorrente: un lapis, una matita, una gomma, buona anche per l’inchiostro, un pennarello rosso, uno verde, dieci copie della versione esatta della sua storia, una copia della versione, per così dire, “ufficiale”, alcuni scritti con ipotesi intermedie, mezza risma di fogli di riserva. Gli ho ricordato, particolare da non trascurare, che aveva anche un naso nuovo, di foggia decisamente occidentale. Gli ho raccomandato di darmi sue notizie appena possibile, almeno per le prime ore del pomeriggio. Tutti concordammo sull’opportunità che rientrasse prima di sera. Ma alle cinque del pomeriggio da Boh non era arrivato alcun segnale.

    Alle sei l’assassino cominciava a dare segni di agitazione. Alle sei e trenta Jimmy si era isolato nella nevrosi di un solitario. Geraldine, senza aprire bocca, continuava a poggiare occhiate interrogative ora sull’uno ora sull’altro.

    “Forse è stato un errore mandarlo fuori da solo” ha alzato a un tratto la voce Jimmy.

    “L’avranno ammazzato di nuovo” l’assassino non nutriva già più alcuna speranza.

    Io, mi sentivo decisamente in colpa.

    Era stata mia l’idea di ributtare in strada Boh. Gli avevo affidato il compito di sostituire la versione ufficiale dei fatti che lo riguardavano con il racconto reale o, se proprio l’opposizione fosse stata ostinata, con una versione di compromesso da concordare con l’articolista autore delle frasi incriminate. Ero partito da un presupposto banale: il diritto alla rettifica. Rivendicato dal soggetto medesimo della vicenda, benché in questo caso ufficialmente morto, fuggito dalla prigione di carta in cui era trasmutato e ritornato in carne e ossa per puntualizzare particolari, secondo il mio parere, fondamentali.

    Secondo il piano, dopo Boh sarebbe toccato a Jimmy. Testimone del percorso inverso, fuggito volontariamente dalla vita per rifugiarsi in questa prigione di carta dove almeno aveva trovato udienza.

    Infine sarebbe intervenuto l’assassino: ultimo, perché era necessario ancora del tempo per valutare su quale delle tante vicende nelle quali era stato coinvolto dovesse provare a intervenire.

    Fondamentale, come prima mossa, seminare il dubbio. Altro elemento scomparso dall’uso contemporaneo del pensiero. Il dubbio dei possibili punti di vista, in un certo senso premessa della teoria del punto e virgola, come stavo ancora spiegando, segno negato di pausa ponderata fra una parola e l’altra.

    Ma negate, per ora, mi fecero notare i miei ospiti, erano soprattutto le notizie di Boh. L’aria si stava caricando di tensione.

    “Potremmo aver sopravvalutato la capacità di ricezione e di mediazione del nostro obiettivo. Non vorrei ribadire quanto sia convinto della necessità di metodi più drastici…”

    “Rimarrai sempre e soltanto un assassino…” Jimmy stava perdendo la calma.

    La macchia gialla ha avuto un sussulto, poi in un guizzo l’ho vista balzare al collo dello scimpanzé. Ho faticato non poco a dividerli, sotto lo sguardo terrorizzato di Geraldine.

    Alle sette di sera la tensione era alle stelle. Fu lacerata, alle sette e quindici, dallo squillo del telefono.

    “Pronto?”

    Silenzio.

    Pronto???

    Nessuna risposta.

    Poi, una voce cavernosa: “Se il tuo amico è ancora vivo è solo perché non ho tempo in questo momento per occuparmi dell’eliminazione di un già morto. Per ora rimane nelle mie mani. Finché non abbiamo chiarito alcune cose. Io e te. Una volta per tutte”.

    Click.

    “Chi è?”. “Chi era? Chi???”. Jimmy, l’assassino e Geraldine mi si erano stretti intorno.

    Porca miseria. Proprio lui, non avevo dubbi: Oscar.

    Fra le centinaia e centinaia di redattori, corsivisti, inviati, apprendisti in cui potevamo incappare, proprio Oscar. L’ho riconosciuto dal tono slabbrato della “è”. Inconfondibile. Anni di corsi, prove, esercizi di dizione non erano riusciti a rimodellare quella vocale dall’accento scivoloso come le paludi della terra in cui era nato. Oscar, come definirlo…, Oscar…, un prototipo. Ovvietà e pensiero sterile, misti a quel tanto di arroganza, soffusa di ignoranza e di arrivismo, il tutto riassunto in un corpo basso e largo, insaccato in pantaloni di tela scoloriti e camicie azzurrine con le maniche rimboccate fin sui gomiti. E un odore rappreso di mozzicone di sigaretta, peggio di un posacenere mai svuotato…

    Stavo perdendo il controllo delle parole… Mi succede sempre, quando penso a quell’individuo. Forse non sono il massimo dell’obiettività quando parlo di lui, ma la sola idea di Oscar riesce a scatenare i miei più bassi sentimenti. Non posso tralasciare il particolare che devo a lui e alla definitiva repulsione che ha ispirato in me, se mi sono arreso all’inevitabilità di vivere in questa scatola di cartone.

    Oscar, dunque. A Boh non poteva capitare di peggio. Oscar non avrebbe esitato a eliminarlo, sebbene già morto, se avesse pensato che la sola idea della sua esistenza poteva spostare anche appena di una virgola la rigida impaginazione del suo personale menabò. Oscar: ultimo tassello della rete di controllo e di anestetizzazione della parola.

    Non è un mio delirio: ho ricostruito la mappa di quella rete. Ne è risultato uno schema come di centrale elettrica. A suo tempo, ho anche esposto denuncia. Ho pubblicamente accusato Oscar, allora mio diretto superiore. Oscar mi ha giurato odio eterno ed è stato promosso ad ancora superiore incarico. Io sono stato allontanato dal lavoro, mia moglie ( ne avevo una alquanto carina) mi ha lasciato, i miei bambini hanno dimenticato il mio nome. Io ho continuato, come avrete capito, a scrutare finché mi è stato possibile il flusso di parole che il sistema ha continuato a produrre, cercando sempre di individuare, isolare e denunciare gli errori, ogni manipolazione. E dovevo fare in fretta, prima che tutti fossero irrimediabilmente anestetizzati. Il tempo, ne ero certo, sarebbe presto scaduto. Ma tutte le parole, quelle pronunciate, quelle scritte, quelle ipotizzate, quelle scagliate, quelle urlate, sono state troppo anche per me. Così (e questa è un’altra ipotesi di verità) mi si è richiusa intorno questa scatola dalle pareti di cartone. Nella quale, devo ammettere, mi sono volentieri accomodato. A patto che (forse l’ho già detto) nessuna parola, nessuna notizia che io non avessi scelto, avesse varcato questa soglia. Ma la storia sta prendendo tutta un’altra piega. ( 6- continua)

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