Questa domenica al TPO di Bologna il Gruppo Elettrogeno Teatro mette in scena “Finché galera non ci separi”, un lavoro che “accompagna lo spettatore dentro la vita dei detenuti, incatenata irrimediabilmente alla quotidianità, con le sue nostalgie, i suoi rammarichi, le speranze indefinite e illusorie, la disperazione, la voglia di morire, la forza di vivere e resistere”… un reading teatrale tratto dalle poesie di Emidio Paolucci, ergastolano detenuto nel carcere di Pescara, interpretate da Pierpaolo Capovilla… nell’ambito del progetto “Fiori blu”.
E leggendo l’annuncio sono saltata dalla sorpresa. Le poesie di Emidio Paolucci le conosco bene… raccolte in “Senza speranza e senza disperazione”… e sono andata a rileggere gli appunti di pensieri che a lui e alle sue poesie, che davvero colpiscono molto, ho subito regalato…
Li ripropongo…
“A cosa serve la poesia? A catturare i tuoi deserti…”. E’ la prima immagine alla quale si rimane inchiodati scorrendo i versi, un’immagine fulminante di verità.
Perché c’è un deserto grande quanto un oceano nel quale si prosciuga la vita di chi è in carcere, ed è il vuoto di vita affettiva e sessuale. Che è pena che si aggiunge a pena, che è punizione aggiuntiva di corpi. Cosa che in molti paesi in Europa e fuori dall’Europa è stata superata, ma in Italia ce la teniamo ben stretta, come struttura inconscia dell’apparato repressivo. Noi, di qua dalle mura, neppure pensiamo a quale grande tortura, che si aggiunge alla pena della detenzione, sia questa privazione, che è compressione violenta e devastante di pulsioni naturali, che porta malattie, che porta dolore. Una privazione che si traduce in negazione della persona, se nei tempi e nei modi della relazione anche affettiva e sessuale tutti noi costruiamo la nostra persona e la nostra vita, se noi siamo quello che vediamo nello sguardo dell’altro e in quello ci riconosciamo.
Proviamo a immaginare quali torsioni della personalità ne derivano, quale lacerazione. Annullare questo dolore negandolo, porta spesso alla negazione della vita stessa…
E se il carcere e le condizioni generali di chi vi è relegato sono una delle grandi rimozioni della nostra società, la questione della privazione della vita affettiva e sessuale è rimozione nella rimozione. Leggevo che persino nella letteratura sociologica e giuridica il tema della sessualità di chi vive recluso è stato quasi completamente abbandonato. Mentre chi è dentro sembra quasi abbia timore a parlarne, come per non risvegliare, anche solo appena appena evocandolo, un dolore insostenibile.
Ebbene, Emidio Paolucci ribalta completamente l’orizzonte. E lo fa senza veli, senza ipocrisie, sfacciatamente, urlando verità come solo con parole vere si può fare, senza avere paura del loro suono.
E cattura questo deserto raccontandone il vuoto con immagini affollatissime di donna, che sono tutte e sono nessuna, con il loro carico di amore, di sesso, di sentimenti, regalati, negati, di tenerezze e di furori che tornano dal passato o nascono nel pensiero del presente…
Traboccano di sesso queste pagine, di sesso e donne. Illusione di donne che appaiono e scompaiono come fantasmi. Ma pure a volte sembrano rivestirsi di sangue e di carne, divenire corpo, e gonfiarsi tanto da occupare l’intero spazio, fino a toccarti, fino a graffiarti la pelle, entrare e uscire attraversando mura, senza aspettare permessi… come ben sa possa succedere chi con i fantasmi ha dimestichezza… Parlano, questi fantasmi di donna. Parlano, come tutto in queste pagine, di carcere.
E così Emidio Paolucci, in un posto che è il deserto della comunicazione, ci comunica tutta la vita che non c’è e quel nulla che se ne può afferrare. Il niente che scandisce il tempo della prigionia, i mattini vuoti, l’abitudine a fare a meno di tutto… Forse anche per questo nessuna delle donne che compaiono ha un nome. Una sola ne ha, e si pronuncia Carmen, e scopri essere nome di figlia, per la quale “avevo immaginato cose un po’ diverse quand’eri piccolina”… e ora “mi tocca tacere/ mentre tu mi porti stelle /con uno sfondo sconosciuto”.
Per tutte le altre, nessun nome, forse tutti risucchiati dal nulla di quel tempo, che si consuma senza una carezza… senza una palpatina… “sì, senza una scopata/ una di quelle che alla fine ti tolgono il fiato/ e ti lasciano a raccogliere il respiro/, con gli occhi sul soffitto…”
In carcere sono poche, pochissime le cose personali che si possono avere con sé. Centellinate, pensate, anche le fotografie. In alcuni istituti disposizioni le limitano a un numero preciso e non ne ho ancora capito la logica… Fra le fotografie che ha con sé l’autore ce ne sono tre, le foto del fratello scomparso, che accenna a un sorriso “ignaro di quello che la vita gli negherà”… Leggete, in “Tre scatti”, tutto quello che resterà di lui.
Se in carcere tutto è sottratto, si moltiplicano invece le paure. Leggete “Le mie paure, Ray”, quasi una nenia, per un elenco inesorabile, ce ne sono di terribili, che chi è fuori non sa, come la “paura che tutto questo diventi familiare”… come la “paura che il latte sia scaduto”…
Ah, certo c’è anche il caffè, “l’unica cosa che qui esce”… l’unico odore che sappiamo, perché nessuno che non vi sia stato può immaginare l’odore del carcere, che è odore che si fa corpo, di scatola chiusa, e di ferro e di vuoto e di umido e di freddo che, se non si è bravi, ma molto bravi, rischia presto di irrigidire anche l’anima.
Ancora, ascoltate, la compulsione di c’è posta, c’è, c’è posta? La posta… spesso l’unico filo per tessere parole con l’esterno, per suggerne un po’ di vita. Ancora attesa di tutto quello per cui non si dovrebbe attendere. Come l’avvento di questa donna, che diventa amore e dolore e gioia e noia, una tale noia per quella ossessiva assente presenza, da trovarsi un giorno, svegliandosi, ad avere voglia di mandarla via. “Che ci fai la mattina accanto a me”… Suona quasi un arrendersi al sistema che tutto vuole chiudere al mondo. Ma dura poco.
Alla fine, rileggendo queste pagine per cercare di cogliere un percorso da invitare a seguire, mi è sembrato di trovarmi di fronte a un continuo tentativo di scrivere lettere d’amore… e l’amore, unica cosa che ci regala brani di eternità, che ferma in istanti la pienezza del tempo, è fatto di carne, di sangue, di lettere, di fastidi, miserie, tradimenti, attese, oscenità, anche… Una lunghissima lettera d’amore che “ho iniziato a scrivere e poi l’ho strappata”…
Ormai da tempo scambio lettere con persone in carcere. Lunghe, infinite detenzioni, ergastolani, i miei amici di penna… ecco, penso spesso che le loro parole non sono mai il chiacchiericcio al quale siamo abituati, le formalità nelle quali perdiamo il tempo dei nostri giorni, sino a fare della nostra vita, per rubare un verso a Kavafis, “una stucchevole estranea”… In ogni parola, in ogni pensiero delle loro lettere, ritrovo il ritorno all’essenza vera delle cose. Per tenersela cara, questa vita, per altri versi in un modo o nell’altro in un altro tempo sciupata. Se la tengono cara, ognuno scavando nella storia propria e del mondo, alla ricerca delle proprie parole di verità. Che è la forza della letteratura, credo, come è la forza del suono della poesia.
Insomma, benvenuti in questo deserto…