Traiano è rione del quartiere di Soccavo nella città di Napoli. Nell’estate di cinque anni fa se ne parlò, come accade, per un triste fatto di cronaca: la morte di Davide Bifolco, un ragazzo di sedici anni, colpito da un carabiniere durante un inseguimento. Era stato scambiato per un latitante. Davide non aveva mai avuto problemi con la giustizia.
A Traiano, per raccontare questa storia, è andato Agostino Ferrente, regista fra l’altro di un bellissimo documentario di qualche anno fa, “Le cose belle”, anche questo girato a Napoli. Cosa accade questa volta. Accade che a Traiano Ferrente incontra due adolescenti che di Davide erano amici, Alessandro e Pietro, anche loro sedicenni… e tanto lo hanno colpito, questi due ragazzi, che il regista lascia che siano loro a raccontare e a raccontarsi, anche “tecnicamente”, dando loro in mano per filmarsi un iPhone (per essere precisi l’iPhone, piuttosto che una telecamera, l’hanno scelto i due ragazzi).
Il risultato è davvero sorprendente. Alessandro e Pietro entrano subito nel ruolo di narratori di un racconto sulla vita degli adolescenti di Traiano, che parla certo di una realtà di fatto lasciata a se stessa, ma ci libera anche dagli stereotipi di cui reality e fiction continuano ad inondarci: Alessandro e Pietro sanno che senza lavoro l’unica via rimane lo spaccio e riescono a restarne fuori (anche perché consapevoli di finire fra due fuochi e rischiare di “o essere arrestati dalla polizia, o essere uccisi dalle bande rivali”), ma, soprattutto, sono due ragazzi come tanti, come lo era Davide, anche se la loro vita è chiusa nel perimetro di una periferia diventata per noi sinonimo di spaccio e criminalità.
Una nota, occupandomi da qualche tempo di persone in carcere, su un particolare che mi ha toccata. A un certo punto la parola è a una ragazza… 16 anni, bellissima, con un trucco più grande di lei…
Come si racconta. L’amore, certo, come tutti gli adolescenti. Ma è un amore prigioniero di un percorso di vita come già segnato. La ragazza sogna l’amore eterno, come tutti noi a 16 anni l’abbiamo sognato e ci abbiamo creduto, e ripete e ripete, con assoluta naturalezza e convinzione, che sarà eterno, anche se capiterà che il suo uomo passerà del tempo in carcere. Anche se il tempo del suo amore prigioniero durerà anni ed anni…
E ho visto in lei l’adolescenza di tante donne incontrate in attesa dei colloqui in carcere. Qualcuna anziana, molte adulte, molte giovani, e già una vita ad aspettare fuori le mura, un cancello, una porta… a inseguire, di prigione in prigione, il proprio uomo. Nelle parole della ragazzina di Traiano ho visto (forse l’avevo già capito, o solo intuito, ma come pensiero da scacciare via) come si prepara il loro essere lì, con la sottile ansia di una pazienza infinita, per dieci, quindici, venti anni… con il vestito e il trucco dell’attesa…
Tornando ad Alessandro e Pietro, che hanno lasciato la scuola, e il primo lavora, il secondo spera di ritrovarlo… la loro amicizia è di quelle vere, cumpagne si dice da quelle parti… Cunpagne che si affiancano, si sostengono, momento per momento, che non si abbandonano, si coccolano, anche, in scene che toccano l’anima…
Agostino Ferrente racconta, in un intervento su Internazionale, come anche lui si sia spesso commosso. Anche perché, spiega, non ha dato nessuna delega di regia, ma è sempre stato lì presente, a seguire, suggerire, provocare…
Selfie. E come nei selfie in primo piano sono sempre i volti di Alessandro e Pietro. I loro occhi. Ed è nei loro occhi, umidi d’adolescenza, che vediamo quello che raccontano.
“E’ un film -spiega Ferrente- sugli occhi che vedono e non su ciò che vedono, che un po’ ce lo immaginiamo, ché c’è stato un po’ di accanimento di film e di letteratura su Napoli… Nel mio piccolo anch’io col mio film precedente ho contribuito a tale accanimento, quindi inutile inquadrare ancora periferie, palazzoni, già patrimonio dell’immaginario collettivo … inquadriamo gli occhi, indichiamo il dito e non la luna…”
Un film da vedere. Ne ero certa… e davvero ne ero curiosa, dopo aver visto quel bellissimo documentario che è stato “Le cose belle”, che Ferrente aveva realizzato con Giovanni Piperno. Un regista che deve amare moltissimo i ragazzi di Napoli, se così bene anche allora è riuscito a far parlare i suoi giovani protagonisti, incontrati tredici anni prima e andati a ripescare tredici anni dopo, ancora giovani e fin troppo adulti che raccontano e si raccontano, con i loro sogni, dopo tredici anni già sconfitti…
E ti viene da pensare e da chiederti se siano i ragazzi di quest’ultimo lavoro, Alessandro e Pietro, già sconfitti anche loro. Se il dolore arriva anche con la morte di Tommaso Bifolco, a pochi giorni dalla notizia del dimezzamento della pena per il carabiniere che aveva ucciso il fratello Davide. Morto di crepacuore, ha poi detto lo zio…
E invece, nonostante tutto, c’è una luce, una cosa bella, che mi è sembrata non solo sogno…
Alessandro, che da “narratore” incontra e invita alla narrazione di sé altri ragazzi, si stupisce e rattrista che non conoscano “L’infinito”, la poesia di Giacomo Leopardi. Che lui, invece, conosce bene. Ne ha colto benissimo il senso profondo, e lo dimostra, quando ne traspone il significato nel suo mondo… e paragona ai confini del rione quella siepe che “dell’ultimo orizzonte il guardo esclude” … e riesce a immaginare “interminati spazi di là da quella”, augurandosi che, se non lui, almeno i suoi figli, o almeno i suoi nipoti riescano un giorno a sfondare quella siepe che chiude il loro sguardo sull’infinito…
Non so che ne possano pensare gli insegnanti della scuola che Alessandro a suo tempo ha abbandonato, ma io un diploma honoris causa glielo darei volentieri.
Andatelo a vedere, Selfie… se volete un “racconto dal vero”, con tutta la freschezza, la bellezza delle brevi gioie, del sottile dolore, sul limite del tutto e del nulla, che è delle cose vere…
La lingua è quella napoletana. Difficile (anche per me che da quelle latitudini provengo) capire tutto. Ci sono i sottotitoli, certo, ma non concentratevi molto a leggere, meglio abbandonarsi ai suoni, ai volti, agli sguardi, ai gesti, all’espressività che rende le parole superflue, a volte…