La scalinata era composta da tre rampe. Tre lunghe rampe per raggiungere i locali sotterranei. Calce bianca alle pareti e sul soffitto, basso da sfiorare la testa. Una sola feritoia all’altezza dei primi gradini, affacciata sul confine fra il mondo della luce e quello del buio. Un sottile riquadro che comprendeva un tratto d’erba, l’inferriata di un recinto, un’ala scolpita nel marmo. Vi lanciò un’occhiata, come sempre prima di proseguire lungo la seconda rampa, dove la luce era solo livido neon, l’aria a tratti fredda e a tratti infuocata. Aliti di morte e aliti di vita, pensò, mentre il respiro già sembrava fuggire via.
“L’accompagno professore? Neanche un visitatore, oggi. Scendo con lei?”
Il viso del padre guardiano s’affacciò dall’alto della scalinata, senza quasi più denti e sommersa di rughe. Più tetra della più tetra delle mummie, gli sembrò.
No, non ce n’era alcun bisogno. Sarebbe sceso da solo. Come sempre.
Come sempre ogni domenica, da circa tre anni. Perché tutto era cominciato esattamente una domenica pomeriggio di tre anni prima. Con un’idea che gli era balzata improvvisa in testa.
Più che un’idea un’illuminazione. Una sorta di visione, a quella frase del saggio che accennava al luogo della morte come casa di convegno dei vivi.
Ma certo, come non averci pensato prima. Alla casa della morte dove il tempo dei corpi era fermato per l’eternità. Era lì che avrebbe trovato la risposta alla domanda che lo tormentava da sempre. Glielo avrebbero indicato loro il luogo del passaggio dall’esistenza terrena e all’oltre. Loro: le mummie del Convento dei Cappuccini.
(1- continua)