Ancora un'”annotazione” di vita. Di Carlo Pucci. Uno sguardo che nulla risparmia, planando su zolle rosse di sangue di terre d’Africa… e tutta quella luce infernale…
“Non vedo nessuna pista. Tronchi imponenti d’alberi dispersi. Sparuti cespugli di rovi. Sopra la terra rossa: il cielo turchino è oceano profondo. Il francescano guida sicuro di sé. Lui la vede, la strada. La gip sobbalza. Zolle compatte a perdita d’occhio. “Attento! – gli dico – Guarda!” indico fuori dal finestrino. Un uomo laggiù appare e scompare fra sterpi e alberi solitari. Coperto da tela di sacco, non porta armi. A piedi scalzi scende in fondo alle crepe; rimonta in cima alle zolle riarse. Il francescano gli fa cenno dalla gip. Quello tira dritto. Non gli bada. Lo superiamo. “Non mi fermo – dice il francescano – Rifiuterebbe il passaggio: cammina disarmato. So che va a perdersi”.
Grata fitta di neri abissi. Non vedo la faccia. Ma sento la voce. La sento bene, quella: “Gesù piange. Segui il demonio e ti perderai all’inferno”. Lascio che dica. Mi alzo dal confessionale. La sentenza non l’ascolto: sono già fuori dal duomo. Ho tredici anni. Non mi conformo alla condanna: io non appartengo. Sono io che ripudio. Sotto il cielo turchino: io non cammino disarmato. Io non mi perdo nella luce infernale.
“Rifiuterebbe il passaggio – ripete il francescano – Quando vagano disarmati: è perché vanno a perdersi”. Sporgo la testa dal finestrino. L’uomo è scomparso nella savana. Ho diciott’anni. Quale grata lo avrà giustiziato? Di certo lui apparteneva. Forse avrebbe voluto restare. Forse, per quanto? Il cielo turchino lo ha ripudiato. La luce infernale se lo porta già via. Giù nella zolla; rossa di sangue.
“Vivo in Africa da più di quarant’anni – mi racconta il francescano – L’Africa non l’ho ancora capita”. Pausa. Il motore ci scassa i timpani.
Lui guida schivando le buche inattese. Io fumo; sbatto la testa per gli scrolloni. Giraffe immobili nella caligine. Sagome evanescenti protese sotto un baobab. Il sole s’appicca alle zolle. Rosse di fuoco.
“Si convertono per un sacco di grano – continua – Arriva il musulmano con due sacchi e… fanno presto a seguire il suo credo”. Si stringe nelle spalle. È nello sconforto. “Li ho convertiti tutti. Mi manca lo stregone. Riuscirò anche con lui. Sono molto convincente, io”. Mi parla della gente che andiamo a trovare: “Hanno dovuto ripudiare le seconde mogli. Be’… era inevitabile: noi non siamo musulmani. Neppure loro. Ora non più. Sono cristiani. Cattolici come noi”. Pausa. Il motore ci assorda.
Mi chiedo a che prezzo se le erano comprate. Per quanto grano se le sono vendute. Sacrificate ad un nuovo dio. Antropomorfo bianco e compiacente. Bianca è la misericordia implorata. Bianca è la fede stipulata: così ci si affranca dalle zolle rosse di fame. “Hanno dovuto cacciarle via – mi spiega – Ora se ne stanno da sole. Nelle capanne addossate al recinto. Fuori di notte ruggisce il pericolo. Sagome evanescenti. Senza più nome. Seguono ultime la carovana. Quando la tribù si sposta per sopravvivere.” La gip arranca. Siamo arrivati.
Dentro al recinto: altri ripudi saranno contrattati; altri abbandoni pronunciati. Ci vengono incontro cantando. Gli uomini saltano in cerchio. In danza serrata. Le lance puntate contro il cielo turchino. Le donne stridono in stormo. In onda aggruppata. Dinoccolata. Il francescano dilata un abbraccio fraterno. A mani aperte traccia recinti di protezione. A mani bianche sigilla il suo patto dispensatore di grano.
Sbuca dal gruppo una tipa bionda. Il francescano non me ne aveva parlato. Lentiggini rosse sotto occhi turchini. È scalza, Appena coperta da un babydoll azzurro a pois bianchi. “Facevo la parrucchiera a Modena” mi dice allegra. “Che ci fai qua?” le chiedo. “Gliel’ho data su. Sai… stufa del mondo falso. Ho fatto un corso d’infermiera e sono tre anni che mi sposto con loro. Mi hanno accettata. Sto bene qui. A Modena, chi ci torna più”. Alimentata dal proprio ripudio; lei non abita nelle capanne sotto il recinto. Bianca Madonna planata in aeroporto africano. Dalle sue candide mani sbocciano pillole, gocce, garze e siringhe. Venuta da cieli lontani: appannaggio per mogli immolate. Veste d’azzurro; non è da stuprare. Piazzata al centro del campo: è venerata. Scaccia il demonio; cura e protegge dalle zolle infernali.
“E tu che combini?” mi fa. “Niente – rispondo – Ho finito il liceo”. “Allora adesso sei uno… maturo! Un uomo fatto e sputato!” mi sghignazza in faccia.
Taglia corto: “Che mi hai portato?”. Caccio fuori dallo zaino i medicinali. Mi dice: “Seguimi”. Al centro del recinto, la capanna di sacco odora di legna affumicata. Mette i medicinali in un armadietto di ferro. Smalto bianco; scrostato.
Fuori aspetta una donna. Non è un’ammalata. Collari pesanti impilati attorniano il collo allungato. Pesanti lo coprono atrofizzato. Pesanti sorreggono la testa non più capace di reggersi. Vuole la mia camicia. L’ho presa prima di partire. Nel mercatino dell’usato. Ne ho altre due, in fondo allo zaino. Indico il bracciale d’ottone stretto al suo braccio. Non è d’accordo: se lo vuole tenere. Per la camicia vuole darmi la cavigliera d’ottone. La porta al piede sinistro. Aggiungo le altre due camice. Tre camice usate per cavigliera e bracciale d’ottone. Riflette. Non c’è fretta. La morte può attendere di là dal recinto. Aspetto la sua abiura. Il bracciale mi piace. È fitto d’incisioni. Sono indecifrabili. Neri abissi dove smarrirsi. Calendari di fertilità. Dai fori, i defunti parlano ai vivi. Lei fatica parecchio a disincastrarlo dalle carni rigonfie. Con dolore me lo consegna. Mi dà anche la sua cavigliera. Prende le tre camice con gesto liturgico. Valgono più di tre sacchi di grano. Scompare fra le capanne di sacco. Privata d’insegne si è esposta al pericolo. Nell’abbandono del suo ripudio.
Settembre 1975. Sto alla finestra della mia camera. La savana non è la mia casa. Ho diciott’anni. Non subisco ripudio: io non appartengo. Io sopravvivo. Ancora per quanto?
Quando il ruggito rasperà il mio recinto. Quando la zolla inaridirà il mio campo. Allora: per pochi sacchi non tarderò ad abiurare; per pochi a tradire. Forse. Sotto il cielo turchino: anch’io me ne andrò disarmato. Anch’io andrò a perdermi nella luce infernale.
Carlo Pucci