Una sola volta ho visto un cuore conservato in un’urna. A Vienna. A dire il vero il cuore non l’ho visto affatto, sigillato dentro l’urna di pesante metallo. Ma la scritta alla base del contenitore era chiara. Vi era conservato il cuore di un Asburgo. E mi è importato poco sapere che la pratica dell’espianto del cuore, come delle viscere, era cosa necessaria per il processo d’imbalsamazione. Non ho potuto che immaginarlo con molta tristezza. Quel cuore smarrito, lontano dal corpo al quale era appartenuto e insieme al quale avrebbe forse preferito dissolversi nella terra. Ora era lì dentro, condannato a una solitudine eterna e buia. Nudo del corpo. E lo sguardo, anche di qua dall’urna, si fa impudico. Tristezza ancora maggiore ho provato quando ho saputo di Chopin e del suo cuore, custodito in Santa Croce a Varsavia, così lontano dalla tomba di Père Lachaise a Parigi, dove riposa.
Avevo allora pensato davvero spiacevole l’atto con il quale quel pezzo di muscolo era stato tolto al torace dell’uomo per il quale aveva battuto il tempo della vita. Anche se sembra sia stato un desiderio proprio di Chopin. E questo dovrebbe essere il destino di un altro grande Polacco. Leggo sul sito di Repubblica che i Polacchi vogliono in patria il cuore di Wojtyla. Sognano di seppellirlo nel castello dei re di Cracovia. Il cuore di Wojtyla in Polonia. Per la gioia della sua gente. Il resto, nel caso, potrà rimanere nella sede dei papi.
C’è un che di tribale, mi sembra, nell’idea di andare a frugare in un corpo e separarne gli organi. Un pò come spartirsi le spoglie. A qualcuno tocca il cuore. Magari a chi si presume abbia voluto più bene all’uomo che fu. Per adorarlo meglio. “Per guardarti meglio. Per toccarti meglio. Per mangiarti meglio”, viene da pensare… Ma no, stiamo parlando solo di reliquie. Certo. Eppure il dubbio è che ci sia qualcosa d’osceno nei pezzi di corpo esibiti, comunque ‘confezionati’. Reliquie, appunto. Parola che ha un po’ il sapore del sangue, appena dolce, appena pauroso, come un leggero svenire.
Anni fa, un “empio”( e seducente per chi ne avesse amato l’autore) film del regista inglese Peter Greenway narrava una storia ambientata verso la metà del 1600. “The baby of Macon”, la vicenda di un bambino al quale erano state attribuite prerogative divine. Insomma un bambinello che ebbe la sciagura di essere creduto ‘santo’, se di lui approfitta persino la sorella che fa credere di esserne madre, vergine, e che alla fine lo uccide. Atroce la condanna a morte della donna, insostenibile e pur difficile da dimenticare come un terribile incubo, così come insostenibile e impossibile da dimenticare, la feroce scena finale, con il corpo del bambino smembrato in reliquie. Per acquietare la sete di sacro dei fedeli.