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    Quand’ero un ragazzo…

    fine-pena-maiDal carcere di Padova, una lettera di Giovanni Zito. Pubblicata sull’ultimo numero della rivista “Una città”. Ascoltate.
    “Quando ero un ragazzo non pensavo alle conseguenze degli errori commessi, oggi ho 46 anni e sono detenuto ininterrottamente dal 1996.
    La vita in carcere è una tortura fisica e psicologica, specialmente quando si ha una famiglia. Io avevo una compagna al mio fianco, ma la mia condanna e il mio allontanamento forzato hanno fatto sì che io perdessi l’affettività familiare. Mantenere l’affettività, il contatto con i figli, è fondamentale, è la base di ogni famiglia, ed è dura rimanere in piedi quando si perdono le speranze.
    Io ho perso le gioie di mia figlia, non potendo effettuare colloqui con lei, e ancora oggi ho enormi difficoltà per i colloqui familiari. E la mia condanna si è riversata sulla mia situazione familiare già precaria. Mantenere in vita un rapporto è la cosa più bella che un uomo possa desiderare. Io posso subire una punizione, è giusto che sia così, ma mia figlia non si rende conto del perché ci sia una pena così devastante per tutti. (…)
    Oggi Adele, è il suo nome, ha trent’anni ed è madre di tre femminucce, di cui io sono il nonno. Se sono felice… sì, lo sono emotivamente e mi sento commosso da questo pensiero che mi tiene in vita. Ma quello che desidero di più è poter trascorrere del tempo con loro, e che venga creato negli istituti di pena un luogo dove una famiglia possa ritrovarsi insieme, là dove si possa offrire affettività concreta.
    Certo, in carcere la visita dei parenti è prevista. Può essere settimanale o mensile. Ma un conto è un colloquio intimo con la tua famiglia, un conto un incontro fra decine di persone tutti nello stesso posto, uno affianco all’altro.
    Siamo nel 2015. I paesi europei sono un decennio davanti a noi per quanto riguarda questo aspetto della vita in carcere ( per non parlare del fatto che in molti paesi neanche l’ergastolo c’è più). Se io non posso donare alla mia famiglia un po’ di affetto in più, se non posso giocare con i miei nipotini perché il carcere non è fornito di strutture adeguate, allora bisogna pensare di costruire dei moduli abitativi dentro le strutture carcerarie. E fornire luoghi dove un papà possa sorridere ai suoi figli o nipotini, a una donna. Che si possa avere uno spazio familiare, dove ci si possa rilassare sia pure per poco tempo, riunendosi nel calore umano. Un posto che “sa di casa”. Avvertire un senso di serenità equivale ad avere un comportamento equilibrato nella struttura familiare, sia per il detenuto stesso che per tutta l’area familiare. Questo significa avere protetto e curato l’interesse del detenuto e della sua famiglia, significa alleviarne le sofferenze. Significa trovare l’umanità dove si crede non ci sia più vita. Forse non io, ma la mia famiglia deve avere speranza e non sofferenza eterna.

    Giovanni Zito
    Padova

    Ottobre 2015

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