“Le storie come le mie ricominciano sempre. Prendete un ragazzino e destinatelo alla povertà. Poi speditelo lontano da sua madre, in un posto dove non vuole stare e, se disobbedisce, punitelo severamente. Fategli anche subire qualche molestia dai preti. Quando diventa grande, mostrategli che polizia e carabinieri sono lì per fregarlo, in nome della legge e della sicurezza delle persone per bene. Cosa potete aspettarvi? Che vi dica grazie?……forse arriverà anche a pensare di lottare insieme agli altri e di potere vincere”. Un messaggio per tutti noi, che arriva dalle pagine di “Correvo pensando ad Angela”, biografia di Pasquale Abatangelo, “delinquente politicizzato”, come dice è sempre stato definito, protagonista di “una storia degli anni Settanta, che non è stata solo una storia individuale”, e che molto racconta di quegli anni…
Ma non è del libro, che pure molto merita, e dei conflitti sociali di quegli anni che voglio ora parlare, piuttosto del fatto che leggendo della sua vicenda personale, dalla nascita in una famiglia di sfollati, poveri, all’incamminarsi lungo un percorso che lo porta in collegio e poi nel carcere minorile, infine nel carcere “vero”, ho pensato a quanto questo percorso sia stato uguale a quello di tanti altri che poi dietro le mura di una prigione ho incontrato. E quanto anche per questi valgano le sue parole: “ero stato assegnato a quella fogna fin da ragazzino”. Infanzie e adolescenze segnate dalle difficoltà, dal collegio, dal carcere minorile.
Cosa che certo nulla vuole giustificare, ma indurre a riflettere e cercare spiegazioni certo sì. Ne abbiamo il dovere. Anche, e soprattutto, per chi a quel marchio di “delinquente” è rimasto inchiodato, delinquente senza aggettivi, ché il riscatto sembra lontano, se nessuno sembra voler riconoscere percorsi personali che nell’ombra delle mura di un carcere pur sono stati faticosamente avviati.
Perché percorsi altri dovrebbero nascere molto prima di finire in un collegio, o in un carcere minorile.
Guardandosi intorno… quante possibili “storie che ricominciano sempre” nelle strade delle nostre città… basta guardare le statistiche sulla povertà, o anche solo i numeri dell’abbandono scolastico, in Italia fra i più alti d’Europa, “grazie” alle regioni del Sud. E non sarà un caso che nelle nostre prigioni, da un estremo all’altro della penisola, sempre è eco di voci del Sud…
Non mi imbarco in analisi d’ordine sociologico ed economico, che oltretutto, difronte a numeri e ragionamenti di micro o macroeconomia, noi “non addetti” si fa presto a dare una scrollata di spalle e… ci pensi la politica. Ma c’è un piano sul quale siamo tutti coinvolti, e riguarda il nostro atteggiamento nei confronti di chi sappiamo ai margini e lì pensiamo in fondo in fondo debba per sempre restare inchiodato.
Lo ha raccontato bene in un suo libro Carla Melazzini, che con Cesare Moreno aveva fondato l’associazione “Maestri di strada”, che tanti ragazzi di Napoli e dintorni ha seguito e cercato di avviare a un futuro migliore di quello a cui sembravano destinati.
“Insegnare al principe di Danimarca”, il libro. Si parla, fra gli altri, di un ragazzino la cui madre aveva lasciato la famiglia per fuggire insieme a un uomo di altra “famiglia” e il cui cuore era segnato dal dolore, soffocato dal desiderio di vendicare in qualche modo il padre, di punire chi l’aveva così tradito e oltraggiato.
Beh, pensateci un po’: non è lo stesso impulso che muove il più celebre Amleto? Il principe di Danimarca che, conosciuta la verità sull’uccisione del padre, del tradimento dello zio che ne usurpa il trono e ne sposa la Regina, decide di vendicarlo.
Eppure… Amleto, protagonista di tanta letteratura, è diventato uno dei nostri più amati “eroi”, mentre siamo tutti pronti a giudicare male e respingere quel ragazzino nel nulla della sua periferia, nella confusione suo smarrimento.
Penso che questo libro, queste storie di ragazzi che senza i “Maestri di strada” sulla strada sarebbero rimasti, condannati anche da noi alle dinamiche dei loro difficili mondi, mi ha insegnato tanto, a proposito del riflettere e cercare di capire contesti.
Carla Melazzini non c’è più. Rimane il bel progetto nato per prendersi cura dei ragazzi delle periferie, e delle periferie delle loro anime. Ed è sicuramente quello che, pur fra tante difficoltà, e per quanto possibile, è stato fatto a Napoli e dintorni.
Una delle tante cose che bisognerebbe fare ovunque ci sia il rischio che “storie come le mie ricominciano sempre”.
scritto per Voci di dentro