Chissà chi ricorda Eros Alesi, “poeta maledetto”, morto giovanissimo che non aveva compiuto vent’anni, nel 1971. Suoi amici di allora ne conservano, affettuosa e ammirata, la memoria. A tratti tornano a raccontare… Come Enzo Lavagnini*, in questo articolo che mi manda e volentieri pubblico, dal blog “Blanc de ta nuque”. Ecco:
“La fortuna critica di Eros Alesi (1951-1971) è come diradata nel tempo; o forse piuttosto solo ancora tutta da scrivere. Ve ne sono state, è vero, sporadiche avvisaglie, che è utile tenere a mente, parte per così dire della storia, ma crediamo sia davvero facile presagire che si tratti di ben poca cosa rispetto all’attenzione all’opera del giovane poeta romano stroncato dalla droga a nemmeno venti anni che supponiamo si avrà negli anni a venire. La meravigliata “scoperta di un poeta” dovrà per certo, nel corso del tempo, cedere il passo all’ “analisi del poeta”. Del valore dell’opera. Con uno sguardo storico, vediamo allora le rade tappe di questa attenzione critica all’ “incanto” – in senso letterale – di Eros Alesi, per come si sono manifestate sinora. Si deve però cominciarne il breve racconto almeno da un luogo, piuttosto che da una recensione.(…)
Partiamo così dalla celebre “Comune di piazza Bologna” di Roma, diretta dallo psichiatra Luigi Cancrini che è il luogo chiave del destino umano e poetico di Eros Alesi. Si tratta di una comunità “sperimentale”, dove i ragazzi tossicomani – in numero sempre crescente in quegli anni – vengono ascoltati e non soltanto catalogati, come fanno invece le istituzioni repressive, il manicomio e le altre.
Qui, nella Comune, Eros Alesi incontra Remo Marcone, un ragazzo poco più grande di lui. A lui si sente poi di affidare i suoi scritti; lo fa un mese prima di morire. Non che Eros ne interpreti, o ne supponga, il valore, ma il senso esclusivo di una vita narrata in diretta quella sì – la sua vita – e, nei suoi giorni errabondi e pieni di sorprese, non vuole correre il rischio di perderli quei ricordi in forma di poesia. Meglio farli custodire a qualcuno di cui ci si può fidare.
Qualche tempo dopo la tragica morte di Eros Alesi (si schiantò sull’asfalto cadendo dall’alto del Muro Torto, a Roma), Elvira Guida, psicologa, moglie di Luigi Cancrini, fornisce informazioni sulla vita del ragazzo al critico Giuseppe Pontiggia, il quale si appresta a pubblicare per la prima volta le poesie di Eros Alesi nell’ “Almanacco dello Specchio”, quelle ritenute particolarmente significative.
Dell’esistenza dei testi di Eros, Remo Marcone ha messo al corrente già da tempo Elvira Guida e gli altri della Comune. Come sappiamo, Marcone li ha avuti da Eros e li ha conservati. Evidentemente Elvira Guida ne ha intuito il valore letterario e ha fatto seguire loro la strada che li porterà alla pubblicazione. Grazie a Remo Marcone, ho potuto vedere le pagine vergate dalla mano del giovane Eros, con una penna biro. Si tratta dei quaderni affidati a Remo Marcone e da questi custoditi: quaderni che fanno intuire – nonostante la copertina rigida – di aver viaggiato a lungo con Eros e di aver passato quasi integralmente le sue stesse avventure. Tali e tanti sono i segni che portano su pagine e sul cartone rigido. Quello che un poco stupisce è di trovarsi di fronte a diverse stesure delle stesse poesie, quando invece viene da pensare, leggendole di primo acchito, che si tratti di un flusso d’emozioni immediatamente fissato sulla pagina. Forse in effetti così è anche stato, poi le poesie sono state copiate e ricopiate, perdendo forse delle parti ed acquistando, di stesura in stesura, la forma attuale che riconosciamo; una forma originale e, appunto, “quasi” frutto di una scrittura diretta, in modo istantaneo.
Probabilmente la prima scrittura è avvenuta su fogli staccati, sparsi, fogli d’occasione; come quelli che sono quelli ritrovati nel borsino che Eros teneva con sé al momento della morte. Impromptus. E’ spesso presente nei testi definitivi di Alesi una grafia a “stampatello” che rende la scrittura uniforme a quella di tanti coetanei, la tipica scrittura da “diari” scolastici; altre volte si tratta invece di un corsivo: una grafia elementare, non bella, ma chiara, infine funzionale. Le poesie di Eros raccontano per filo e per segno la sua vita. In questo senso sono una sorta di diario che insegue però una doppia narrazione, quella della sua vita evidente e quella delle sue sensazioni procurate con l’uso delle sostanze. Un doppio binario che trova un unico tragitto. Proprio come per la vita stessa di Eros nella quale, leggendo le poesie, si comprende bene come la droga sia finita col divenire, al termine della sua esistenza, l’unica esperienza reale.
Quando Eros comincia a scrivere poesie? Tutto lascia pensare che accada nel periodo del suo ritorno a Roma (scappò di casa, diretto a Milano, a 16 anni). Quindi nel 1967. Forse addirittura più in là, nel 1968. Per certo a Milano Eros Alesi non scriveva poesie; Melchiorre Gerbino, leader di “Mondo Beat”, infatti non ne ha memoria. Però è proprio nella Cava milanese di “Mondo Beat” (la sede del gruppo, nonché redazione della rivista) che l’autodidatta Eros ha conosciuto un ambiente culturalmente attivo, con precisi riferimenti letterari (anzitutto gli autori della beat generation), oltre che con una netta impostazione politica: “Parliamoci chiaro una volta per sempre: se si vuole avere una letteratura viva, bisogna far parlare i vivi” si legge nel “numero unico” di Mondo Beat del novembre 1966; e sui successivi numeri si possono trovare approfondimenti sul buddismo, sull’antimilitarismo, sul Vietnam, sulle lotte di Berkeley e poi ancora le tante poesie di redattori o di collaboratori. Redattori e collaboratori che Eros conoscerà direttamente: sono ragazzi come lui, appena qualche anno in più. È questo l’ambiente adatto per un ragazzo con la voglia tipica dell’età di conoscere e con le sue peculiari curiosità. L’ambiente che sembra poi finire col fare da sfondo per i suoi componimenti futuri, e che egli unirà alle successive suggestioni tratte da Ginsberg e da Dostojevskij. Stare insieme, suonare la chitarra, vedere mostre e quadri, cantare, vivere: è così che si forma il giovane scappato di casa Eros Alesi, uno dei tanti di una generazione in cerca di se stessa. “È la pioggia che va” brano dei Rokes che, come ci ricorda ancora Melchiorre Gerbino, era la canzone più diffusa tra i ragazzi della “Cava”, sembra raccontare proprio le speranze di questa generazione:
E’ la pioggia che va – The Rokes (Lind – Mogol) (1966)
Sotto una montagna di paure e di ambizioni / c’è nascosto qualche cosa che non muore /Se cercate in ogni sguardo, dietro un muro di cartone / troverete tanta luce e tanto amore / Il mondo ormai sta cambiando /e cambierà di più./ Ma non vedete nel cielo/ quelle macchie di azzurro e di blu. /È la pioggia che va, e ritorna il sereno./ È la pioggia che va, e ritorna il sereno. / Quante volte ci hanno detto sorridendo tristemente /le speranze dei ragazzi sono fumo./ Sono stanchi di lottare e non credono più a niente /proprio adesso che la meta è qui vicina. / Ma noi che stiamo correndo/ avanzeremo di più./ Ma non vedete che il cielo/ ogni giorno diventa più blu./ È la pioggia che va, … / Non importa se qualcuno sul cammino della vita /sarà preda dei fantasmi del passato./ Il denaro ed il potere sono trappole mortali/ che per tanto e tanto tempo han funzionato. /Noi non vogliamo cadere/ non possiamo cadere più giù. /Ma non vedete nel cielo/ quelle macchie di azzurro e di blu./È la pioggia che va, (…)
Come si diceva, la storia letteraria pubblica del poeta Eros Alesi comincia con l’ “Almanacco dello Specchio”, nel 1973, due anni dopo la morte. Giuseppe Pontiggia (“Almanacco dello Specchio”, n.2, 1973) così giustifica e commenta l’inserimento dei testi di Alesi nella raccolta : “Eros Alesi è morto tragicamente a vent’anni: il resto non è silenzio, ma una voce che cerca di riprendere con la vita un rapporto che pareva perduto, e con gli uomini un contatto che si fondi sulla verità spesso atroce delle distanze piuttosto che su false speranze di identità. La ‘Lettera al padre’ ne è una disperata celebrazione, con i suoi che ripetuti i quali, nella loro mancata epicità, rimandano all’insofferenza per un ambiente umano che gli risultava ossessivamente angusto e che gli soffocò, tranne che sulla pagina, le potenzialità affettive. Perciò la parola riacquista quella forza violenta e percussiva che sempre si manifesta allorché la poesia tende a convertirsi in energia di esistere, e l’esistere viene pagato di persona da chi ne scrive (un poeta come Campana, in Italia, ne è stato l’esempio più grande). Non mancano, in questi testi, cadute e dispersioni, dovute anche alla stesura occasionale e frammentaria; così come si evidenziano legami vissuti in modo diretto e autobiografico, con quella poesia americana di protesta (e con Ginsberg in particolare) la cui vitalità sopravvive alla moda che ha contribuito a divulgarla. L’autenticità dell’esperienza e l’intensità dell’accento personale bastano però ad Alesi per riscoprire ancora una volta la parola come punto di intersezione e di comunicazione tra l’io e gli altri”.
Come forse è accaduto anche a molti altri, ho scoperto Eros Alesi in una celebre antologia: “Poesia degli Anni Settanta”, 1979, a cura di Antonio Porta, che ebbe a suo tempo una larga diffusione. Lo stesso Antonio Porta, poeta e critico, così introduce e descrive il lavoro di Alesi: “Sembra un espediente retorico dire che c’è uno scarso margine per un commento iniziale, ma è vero. La tematica, sofferta interamente dal corpo dello scrittore, è così offerta e bruciante che rende subito muti. Si trattiene il fiato e si smette di pensare. L’invocazione alla morte è una invocazione alla gioia. Allora si ricomincia subito a pensare e ci si chiede a quale logica altra ci si trovi di fronte. ‘Morire ci piace / lasciateci bucare in pace’ ha scritto l’anno scorso un ragazzo su un muro (che è morto a 21 anni per una overdose). Non ci trovo nulla di patetico. È una sorte di alternativa radicale alla vita: la morte non è più la morte che conosciamo ma non sappiamo ancora che cosa sia di diverso. Si rischia di tuffarsi in una mistica kitsch. Desidero solo osservare che nel caso di Alesi, come in molti altri, la poesia ha interagito con la nostra storia, senza diaframmi. Va detto che un tributo necessario al fare poesia lo paga sempre anche il corpo di chi scrive”.
Le collaborazioni di Pier Paolo Pasolini al settimanale “Tempo” sono raccolte ora in “Descrizioni di descrizioni”. In una di queste collaborazioni Pasolini commenta in questo modo l’apparizione delle poesie di Eros Alesi sull’Almanacco dello Specchio: ”… gli altri sono tutti senza rilievo, anche quell’Eros Alesi di cui si presenta un puro e semplice documento di vita (è morto in manicomio a vent’anni, dopo un viaggio in India, drogato con una trista compagnia di Piazza Bologna. Era di Ciampino. Suo padre era fantino e si ubriacava maltrattando la madre. Di qui la solita tragedia che più o meno abbiamo vissuto tutti. Solo che in questi anni la moda ha voluto che questa tragedia fosse intollerabile ed enfatica, e ha preteso soluzioni estreme. Non ho nessuna particolare pietà per questo disgraziato ragazzo, debole e ignorante, che è morto per la stessa ragione per cui si fanno crescere i capelli. Meno diritti si hanno e più grande è la libertà. La vera schiavitù dei negri d’America è cominciata il giorno in cui sono stati concessi loro i Diritti Civili. La tolleranza è la peggiore delle repressioni. E’ essa che ha deciso la moda della droga, della morte e della rivolta estremistica. I più deboli ci sono cascati, con l’aria di essere dei campioni. In realtà sono stati campioni del più spietato conformismo)”. La stroncatura di Pasolini attiene a giudizi che includono la dialettica tra tradizione ed anticonformismo. Severo, come sempre, il poeta friulano con chi si esprime, a sua misura, con una lingua non propria. Agitato solo da pulsioni “di massa” e, in qualche maniera, alla “moda”.
Più solidale e attento, comunque meno austero e fraterno, appare Franco Cordelli (in Franco Cordelli e Alfonso Berardinelli, “Il pubblico della poesia, trent’anni dopo”) che così esamina gli scritti di Eros Alesi, non mitigando la vicinanza: “La sua lunga Lettera al padre (“Caro papà”) è un testo-limite e insieme un testo essenziale. Si potrebbe dire che a partire da queste cose (come da certi documenti politici espressi dall’interno di pratiche nuove) si misura tutto il resto (come quando si ha la precisa nozione che una lettera di un compagno omosessuale al Manifesto abbia più forza, contenuto e verità politica di decine di cronache di lotte operaie o articoli di “sintesi” politica complessiva). È un linguaggio che parla a noi da un oltre. Ma da un oltre che è qui, non è altrove. Ha come una vibrazione fosforica, shocking. Come l’apparizione di un fantasma. È una voce, nello stesso tempo, presente e postuma. Postuma fin da subito. Il Che iniziale di ogni frase non ha solo un valore percussivo (come nella musica orientale): è l’elemento minuscolo e decisivo che mette tutto il discorso “a rovescio”. Cioè lo colloca tutto intero fuori contesto. A testa in giù”.
Giorgio Manacorda (ne “La poesia italiana oggi”) così motiva l’inserimento di Alesi nella sua antologia: “Non ho voluto dimenticare il caso estremo di Eros Alesi, morto drogato giovanissimo, un vero talento, poteva diventare il poeta americano del Novecento italiano”. E ancora: “Lo sprezzo della forma della poesia, qui non è un vezzo letterario o intellettualistico, ma una pura e semplice necessità espressiva, non una scelta stilistica, ma una coazione allo stile. Le sue poesie sono preghiere. Forse le uniche preghiere laiche della letteratura italiana degli ultimi decenni. La religiosità che pervade questi testi e dà loro forma (il verso inedito, mai visto, generato dal che percussivo di cui parla Cordelli) è qualcosa di molto fondamentale, assolutamente originario. Alesi, che non sa nulla, se non la propria disperazione, riparte dai rapporti primari che hanno generato il sentimento religioso: il suo non è altro che il bisogno di amare il padre e la madre, e di esserne riamato. Se questo non avviene -e per lui non è avvenuto- nasce la religiosità: si adora chi non ci ama e, anzi, è terribile con noi. La sua bellissima poesia al padre non è altro che un “padre nostro che sei nei cieli” e la poesia alla morfina non è altro che una poesia alla madre, che aiuta, consola, lenisce – e strangola. L’amore materno è venefico almeno quanto la violenza del padre è distruttiva. Se le cose stanno così non resta che pregare le due divinità, la fonte di ogni possibile benessere e di ogni legge. Si tratta di preghiere che nascono da una solitudine totale, ma, direi, fondante. Alesi parte da questa ferita immedicabile e deve esprimere, per sopravvivere, il proprio amore senza oggetto, la propria ‘inesistenza’, quindi, ma non può rinunciare ad “esserci”. La preghiera, un modo di comunicare con le divinità assenti, non basta, non può bastare: da qualche parte e in qualche modo Alesi deve trovare la sensazione di non essere assolutamente e irrimediabilmente solo, e in effetti i suoi testi ci comunicano una dimensione corale. Leggendoli sentiamo che non parla solo per sé e non parla solo alle sue cattive divinità. Alesi è il frammento di un mondo che parla tramite lui, e non sono i giovani della sua epoca (non è una dimensione sociologica), è la giovinezza, è la gioventù come tale. Alesi ci sta dicendo che lui è bello dentro, ci sta dicendo che non è ancora morto, ci sta dicendo che ha un mondo dentro di sé. È questa l’apertura, la coralità che passa nei suoi testi”.
Il racconto di Eros, giovane uomo e poeta, termina, per il momento con l’importante lavoro di Remo Marcone, pubblicato in “Poesia 2009 – Quattordicesimo annuario” a cura di Paolo Febbraro e Giorgio Manacorda. Editore Alberto Gaffi in Roma. Un lavoro letterario profondo, frutto di amicizia e condivisione, che traccia soprattutto un preciso indirizzo per chi voglia proseguire lo studio, fatto di conoscenza della biografia e dell’opera.
Così commenta Remo Marcone la vita di Eros Alesi e i giudizi degli organi di stampa nella sua breve introduzione: “Ma resta l’amarezza per le parole scritte su alcuni giornali della capitale a poche ore dalla sua morte: parole prive di pietà e di rispetto verso un ragazzo di strada buono e pieno di umanità, ma diverso, che non sopportava questa società ingiusta (testimonianza della madre). Queste le parole della Carta Stampata: Il capellone ventenne che ieri sera ha concluso la sua carriera di drogato… c’è tutto in un piccolo borsino di cuoio afghano che gli hanno trovato addosso…. Le bande di capelloni, di giramondo, di asociali che s’incontrano a piazza di Spagna…. Aveva diciannove anni, un soffio di vita denso e doloroso, quel ragazzo di strada, artiere ippico, capellone, drogato, viaggiatore, poliglotta, sognatore, ribelle, poeta”.
Enzo Lavagnini
*Enzo Lavagnini, autore, esperto di cinema, ha diretto “Un uomo fioriva” (1994), dedicato al periodo romano di Pier Paolo Pasolini, premiato al Festival di Salerno, presentato in Europa, Nord e Sud America, in onda su Rai Storia, ed altri documentari sulla cultura italiana nel mondo per la Rai . Ha scritto i volumi: “Rapporto confidenziale: Luigi Di Gianni, cinema e vita”, “Il giovane Fellini nello splendente fulgore della vita”, “La prima Roma di Pier Paolo Pasolini”, “Cinema e Ambiente”. Suoi contributi sono apparsi sulle riviste “Duel”, “Lo straniero”. Direttore artistico del “Flower Film Festival” di Castellazzara, del “Think Forward Film Festival” di Venezia -entrambi su tematiche ambientali-, membro del Comitato scientifico del Festival del documentario “Libero Bizzarri” di San Benedetto del Tronto, collaboratore del “Festival Derechos Humanos in America Latina y Caribe”, di Buenos Aires.