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    Pesci rossi

    C’era una volta, e c’è ancora adesso… ancora un racconto di Daniela Morandini, che forse è fantasia e forse no… guardandosi intorno… ieri come oggi… e buna lettura!

    “Quando ero piccola, si usava avere in tinello una vasca con i pesci rossi. Il tinello, vicino alla cucina, era la stanza dove si mangiava tutti i giorni. La vasca dei pesci era una palla di vetro come quella dei maghi, aperta sopra però. I pesci si compravano in un negozio dove c’erano anche dei canarini che, chiusi in una gabbietta, ciondolavano su un’altalena, perché chissà cosa aveva combinato. Vicino alla porta, con una zampetta legata ad un trespolo, c’era un pappagallo verde. Dicevano che sapesse parlare, ma non era vero. Se gli domandavi il suo nome, rispondeva “Loreto”, ma se gli chiedevi quanti anni avesse, ripeteva ancora “Loreto”. I pesci nuotavano in vasche lunghe e verdine. Ce n’era anche qualcuno nero, ma quelli non li voleva nessuno. Ce n’erano anche di minuscoli che, chissà come, si spostavano tutti insieme. Ma soprattutto c’erano i pesci rossi: andavano avanti e indietro tra un palombaro di plastica, un forziere dei pirati, e qualche anfora greca che forse qualcuno aveva messo lì per confondere le idee.
    “Quale vuoi, bella bambina?” chiedeva il signore del negozio sempre con la stessa enfasi, cambiando solo le finali se si rivolgeva ad un maschietto.
    Era fastidioso sentirsi chiamare bella bambina. Intollerabile poi se il signore ti dava un pizzicotto sulla guancia. Comunque era inutile fare storie e i pesci rossi sembravano tutti uguali. Bastava dire: “Quello” e lui inforcava un retino e ne pescava uno a caso. Il predestinato cominciava a dimenarsi, a sbattere la coda, a tentare di scappare, ma finiva in un sacchettino trasparente, con i manici, pieno d’acqua, da portare a casa dopo aver pagato.
    C’era anche un altro modo per prendere i pesci rossi. Alla festa di santa Lucia, che poverina portava i suoi occhi in un piattino, oltre ai banchetti dei cammelli e dello zucchero filato, c’era quello delle lampadine fulminate. Chi ne colpiva di più vinceva una bambola o un elefante di pannolenci. Ma, anche se qualcuno ti aiutava a imbracciare quella specie di fucilino, era impossibile centrare il bersaglio. Allora ti davano il premio di consolazione: il pesce rosso nel sacchettino trasparente. Chissà poi perché ci si doveva consolare. Mica si diventa tristi se non si spara a una lampadina. Comunque, bisognava portare a casa quel sacchettino. Lo si agganciava al deflettore della macchina per non rovesciare l’acqua, mentre il premio, che non era mai stato in automobile, strabuzzava gli occhi. Arrivati in bagno, si apriva il rubinetto, si metteva la palla di vetro nel lavandino e vi si buttava il pesce rosso che, travolto dalla tempesta, rotolava su se stesso. Riempita per tre quarti e chiuso il rubinetto, la palla veniva asciugata e sistemata in tinello. Il malcapitato cominciava allora a girare in tondo senza fermarsi mai: non c’erano via di fuga e il vetro lo faceva sembrare ancora più grande. A ora di mangiare, si apriva una bustina di bricioline dal cattivo odore, ma che al pesce piacevano molto, perché si precipitava a galla con la bocca spalancata. In poco tempo diventava una specie di balena in miniatura, finché una mattina non lo trovavi galleggiare esanime.
    Quando invece finiva la novità e ci si dimenticava di quelle bricioline, i pesci rossi sbiadivano: diventavano rosa, quasi giallini, addirittura biancastri. Anche loro, prima o poi, si sarebbero trovati a galla stecchiti. In questi casi venivano presi per la coda e buttati nel water, si tirava lo scarico e andavano a finire chissà dove. Spesso venivano sostituiti in fretta con pesci nuovi, per non far piangere i bambini, dicevano. Ma persino i più piccoli se ne accorgevano, anche se non commentavano, perché era meglio andare a giocare in cortile.
    In quella palla di vetro i pesci rossi, oltre a mangiare e a nuotare
    intorno a se stessi, espellevano filini sottili, scuri, che fluttuavano nella vasca. Per questo, bisognava pulirla tutte le sere. Dopo aver chiuso il tappo, si buttava il pesce nel lavandino con un po’ d’acqua. Si lavava la vasca nell’altro bagno, si metteva acqua nuova, poi si riacchiappava il pesce con le mani, non serviva neanche il retino, tanto era rassegnato il poveretto.
    Una sera prima di cena, entrando di corsa in tinello, mi scontrai con mia madre che era appena uscita dal bagno e aveva ancora in mano la vasca rotonda. Fu un attimo: la palla di vetro andò in frantumi, mia madre si tagliò dappertutto, mi fulminò con uno sguardo e il pesce rosso morì sul tappeto”.

    Daniela Morandini



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