A proposito di parole. A proposito della richiesta di 16 anni e mezzo di reclusione per l’amministratore delegato della Thyssen, per omicidio volontario. Per i sette morti nel terribile rogo di tre anni fa. Non era mai stato contestato a un imprenditore l’omicidio per la morte sul lavoro di un dipendente. Accusa di omicidio, dunque, per aver rinunciato, nel caso della Thyssen, a investire nella sicurezza antincendio, accettando quindi il rischio di un disastro. “Accettandolo” per gli operai, naturalmente… Una richiesta, questa, che sembra un po’ rimettere le parole giuste al posto giusto. Un tempo ( anni Sessanta… Settanta?) quando si moriva sul lavoro si parlava di omicidi del lavoro, per indicare con chiarezza la responsabilità dei sistemi di produzione, per mancanza di misure di sicurezza e quant’altro. Poi, a poco a poco, quel termine è andato scolorendo, e omicidi del lavoro sono diventati omicidi bianchi, facendo così sbiadire anche la coscienza di responsabilità possibili. E questa definizione un po’ più “pulita”, decisamente più “politicamente corretta”, mi ha sempre fatto pensare alla lupara bianca, l’omicidio di mafia eseguito in maniera che non rimanga traccia del morto e quindi del delitto. Far scomparire la vittima sul lavoro è sempre risultato un pò più difficile, più semplice è stato ammorbidire, fino ad annullarla, l’idea di responsabilità penali, della fisicità possibile di responsabili. Così, un altro piccolo passo ancora e come per magia è sparito anche il termine omicidio. E si è parlato solo di morti, parola terribile anch’essa, ma che precipita in un vuoto assoluto di responsabilità. O meglio nell’irresponsabilità, come insinuando l’idea che sul lavoro, si sa, si può anche morire. Morti, dunque, rimaste bianche, per giunta… a renderle quasi più lievi, accettabili, persino. Chissà che queste parole, omicidio e volontario, pronunciate in un’aula di Tribunale, riescano a rendere un pò meno distratto e pigro anche il nostro parlare quotidiano.