Dall’ultimo numero di Voci di dentro…
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Nella IVCs del liceo scientifico e artistico Guglielmo Marconi di Foligno le ore di educazione civica del secondo quadrimestre sono state dedicate al tema della detenzione. Argomento complesso, non semplice, ma la guida della loro professoressa di italiano, Stefania Meniconi, ha condotto gli studenti in un interessante percorso, che molto li ha coinvolti. Tanti gli aspetti della questione affrontati e al termine del percorso gli studenti hanno incontrato i volti dei protagonisti di “Non è sogno”, il film di Giovani Cioni girato nel laboratorio le Nuvole del carcere di Perugia. “Parliamo sempre ‘del carcere degli altri’, ma sembra abbiano ben percepito, gli studenti, quanto il carcere sia riflesso della società, che il carcere siamo anche noi…” parole di Cioni, che questo film sta portando nelle scuole.
Un argomento, quello delle carceri e di chi vi è rinchiuso dentro, troppo spesso “allontanato”, quando non ignorato, nella nostra società che sempre più tende a considerare quel mondo altro da sé, come se non fosse invece della società prodotto e parte integrante. Ma siamo convinti che se le persone davvero sapessero, se davvero vedessero, se potessero confrontarsi con la verità bruciante di tante storie, con i propri dubbi e paure, anche, qualcosa in molti cambierebbe. Ed è vero, è proprio dai giovani che bisogna cominciare, dagli adolescenti, che vivono quell’età in cui spesso accadono “incontri” che cambiano la vita, semi qua e là gettati che rimangono acquattati nell’animo e nella testa, in attesa, in altro tempo magari, di germogliare… Lo dimostra il percorso seguito nell’istituto di Foligno, cui i ragazzi hanno risposto con tanta attenzione, con le loro emozioni, i turbamenti, le incertezze, le contraddizioni, anche, di chi si affaccia alle durezze della vita e si confronta con i limiti del bene, con la sconfinatezza, a volte, del male…
Abbiamo chiesto loro di raccontare questo percorso, di condividere con noi le loro impressioni, cosa ha significato, soprattutto, incontrare, sia pure solo attraverso un filmato, i sogni prigionieri dei protagonisti reclusi di un film girato in carcere…
A rispondere, sollecite, e sensibilissime, sono state ragazze. Ecco le loro voci, così come sono arrivate. Un buon punto di partenza, per avviarne, altre ancora, di riflessioni…
In questo secondo quadrimestre, l’argomento su cui si è aperto il dibattito, durante le ore settimanali dedicate a educazione civica, è stato la detenzione in Italia. Essendo un tema molto ampio, le discussioni tenute in classe hanno spaziato su più sotto-argomenti ed elementi caratteristici della prigionia. In primo luogo, abbiamo trattato il tema della pena di morte. Purtroppo, non ero presente quella mattina. Assente a questa prima discussione, non conosco il parere dei miei compagni ed è un peccato perché trovo molto interessante e costruttivo ascoltare l’opinione altrui. Personalmente sono contraria a questa pratica, credo sia un gesto disumano. Il tempo, più o meno lungo, trascorso in prigione dovrebbe essere un momento di presa di coscienza delle proprie colpe e dei propri sbagli. Il personale all’interno di queste istituzioni dovrebbe rappresentare un punto di riferimento, una guida per i propri detenuti, non lasciando nessuno da parte. L’uomo è una creatura molto orgogliosa, il pentimento è quindi un passo molto importante ed essenziale, spesso difficile da raggiungere se non si presentano situazioni adeguate. La prigione dovrebbe
essere un ambiente riabilitativo, persino per chi è condannato all’ergastolo. La condanna a morte non solo è un’attività brutale, ma non permette il percorso regolativo per cui la reclusione è stata creata. Inoltre, come abbiamo letto nel testo tratto da “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria, condannare un carcerato a morte non porta che a incrementare paura e orrore all’interno della società al di fuori di quelle che sono le mura penitenziarie. Spesso può frenare azioni immorali l’idea di una lunga reclusione in ambiente ostile e tormentato come quello del carcere, più che la pena di morte, per chi non ha niente da perdere.
Il secondo dibattito riguardava la storia di un prigioniero siciliano. Le notizie che abbiamo ricavato sono frutto di un’iniziativa intrapresa dalla nostra professoressa Stefania Meniconi la quale, tramite lettere, è riuscita a instaurare un rapporto con quest’uomo. In queste lettere racconta la sua storia, la causa della sua condanna e di come, in un periodo della sua vita, abbia tentato il suicidio. Ciò che ha fatto riflettere e ha dato inizio alla conversazione è come le circostanze in cui si nasce segnino inevitabilmente il destino di una persona. Circondato da ambienti e persone malfamate è caduto anch’egli nella trappola mafiosa. In particolare, mi ha colpito una riflessione esposta dalla professoressa alla classe. Essendo lei coetanea del detenuto, comparava la sua vita con quella del mafioso, riflettendo come esse, in entrambi i casi partite da zero, si fossero potute sviluppare in maniera così diversa. Io ho la fortuna di vivere in una città tranquilla, in una famiglia stabile economicamente che può permettermi di avere un futuro. Ma non tutti hanno queste possibilità e spesso c’è chi non conosce neanche la sensazione che si prova nello svegliarsi sereni. È ovvio che la sensibilità di una persona influisca sul comportarsi correttamente o meno, ma non metto in dubbio che certe circostanze mettano a dura prova la morale dell’uomo. Da fuori è difficile giustificare certi comportamenti perché non abbiamo motivo di rubare o uccidere, quando però diventano scenari ricorrenti nella tua quotidianità si può far fatica a distinguerli da ciò che è sbagliato. Spesso diventa una questione di vita o di morte e di fronte a ciò non sempre si è capaci di essere razionali. Con questo non voglio scagionare nessuno ma bisognerebbe aiutare chi non ha le stesse possibilità per cambiare qualcosa.
Abbiamo terminato questo percorso con la visione di un film di Giovanni Cioni. Un film molto particolare, con un’impostazione diversa rispetto a quelli che vedo solitamente. Mi è piaciuto molto perché si muoveva tra momenti più divertenti e momenti seri e profondi. Ho apprezzato il fatto che per ciascun detenuto non è stata mai specificata la colpa. Ladro, assassino, mafioso di fronte alla camera erano tutti uguali, quasi come se il fatto che fossero detenuti non rappresentasse il centro del film. Abbiamo visto sorrisi come lacrime, abbiamo visto rabbia come pacatezza. D’altronde sono uomini, dentro o fuori le sbarre. In molti di loro si percepiva la sofferenza e il rimpianto rispetto a ciò che identifica il proprio passato. Tutti erano d’accordo sul fatto che l’ambiente carcerario fosse orribile, speranzosi di poter rivedere la luce vera prima o poi. Per chi dovesse uscire mi auguro che il ricordo di questa loro “vita non vita” in carcere li spinga a iniziare un nuovo capitolo lontano da questi ambienti.
Margherita Macrì
Partecipare a questa unità didattica relativa alla condizione carceraria è stato molto interessante. Abbiamo avuto la possibilità di parlarne in classe e non solo, siamo riusciti a prendere visione del film “Non è sogno” di Giovanni Cioni… Il film in questione presentava l’indagine dietro le sbarre sulla condizione dell’uomo di fronte all’esistenza, alla realtà del mondo. Inizialmente ci troviamo in un film all’interno di un film che prende le mosse dalla ripetizione di un breve dialogo tra Totò e Ninetto Davoli in “Che cosa sono le nuvole” di Pier Paolo Pasolini e di alcune frasi tratte da “La vita è sogno” di Calderón de la Barca. A pronunciarle sono i detenuti del carcere di Capanne all’interno del Laboratorio Nuvole. Progressivamente dai testi si passa al vissuto di persone che si raccontano senza filtri. Vederli recitare è stato molto bello, si mostravano con tutta la loro semplicità, c’è chi per dire alcune battute aveva necessità di ripeterle allo sfinimento e chi aveva la necessità di sentirle pronunciare più volte per poi ripeterle. Tra un momento di risate e l’altro, Giovanni Cioni ha immortalato anche attimi di silenzio, quel silenzio che permette sia a noi che agli attori di riflettere, noi però vedevamo i volti degli attori, potevamo osservare la loro espressione facciale, i loro occhi che sembrano vuoti ma in realtà erano pieni di sentimenti a noi nascosti. Persone come noi, solo che vivono dentro una struttura per il loro passato, per punizione e per essere aiutati. Mi è piaciuto moltissimo. Sarà banale come pensiero personale ma per me la semplicità del film, degli attori e di tutto il resto mi ha particolarmente colpita, in particolar modo le risate e gli occhi degli attori. In generale penso che parlare di questi argomenti sia molto istruttivo, in particolar modo quando si presentano opportunità di apprendimento che stimolano i ragazzi ad essere più curiosi riguardo al mondo, riguardo alla realtà.
Altina Jusufi
Per noi giovani, penso che relazionarci con un mondo parallelo al nostro e molto
complicato, quello del carcere, sia un bel modo per renderci conto di ciò che provano
certe persone e delle situazioni difficili che la vita gli pone. Noi, che viviamo da
privilegiati, a volte nemmeno ci accorgiamo delle condizioni di alcune persone. Invece, in questa maniera, abbiamo potuto capire, almeno in parte, come vivono e come vengono trattati. Grazie al film di Giovanni Cioni abbiamo visto con i nostri stessi occhi alcuni dei carcerati. Mi sono commossa quasi tutto il tempo e ho pensato: cosa hanno fatto per meritarsi tutto ciò? Certo, è stata una loro azione a farli finire dove sono ora, ma sicuramente c’è qualcosa di molto più complicato e profondo dentro ognuno di loro che li ha spinti ad agire in una certa maniera. Sebbene ridessero e scherzassero, ho visto nei loro volti tanta tristezza, tanta sofferenza, tanta solitudine e soprattutto tanta speranza nel provare a rimediare ai loro errori e cercare di vivere una vita migliore di adesso. Con i loro sguardi urlavano libertà e serenità. Mi hanno colpito in particolare le scene in cui parlavano della terapia che dovevano seguire. Si vedeva in un colpo d’occhio che facevano uso di farmaci. Non erano veramente loro. Erano coperti da una maschera, che non li rende loro stessi al 100%. Inoltre, sono stati altrettanto profondi i momenti in cui parlavano ai loro familiari. I loro occhi splendevano di speranza e di amore per i loro cari. Spero con tutto il cuore che la vita permetterà loro di trovare un po’di felicità e di raggiungere il loro piccolo ma enorme desiderio: tornare a vivere, circondati da vero amore.
Marconi Valentina
Le prime scene del film sono dedicate alla recitazione, con tanto di ciack e di backstage, delle battute di “Cosa sono le nuvole” di Pasolini e de “La vita è sogno” di Calderon de la Barca e, partendo proprio da queste scene di metateatro, vengono raccontate poi le vicende dei carcerati.
Sentire la storia di Domenico, un ragazzo ergastolano che non ha più la possibilità di
crescere sua figlia, fa riflettere sul vero valore che hanno la famiglia e l’amore verso i propri cari. Egli, infatti, tramite una dolce lettera indirizzata alla figlia, le chiede di poterla incontrare con maggiore frequenza, in modo da poterla tirar su anche da dietro le sbarre.
Molto interessante è stata anche un’altra scena: due dei protagonisti discutono sul reato da loro commesso. Mentre uno sostiene di non essersi effettivamente pentito, l’altro afferma di essere felice di stare in prigione poiché il carcere l’ha aiutato a comprendere l’ingiustizia compiuta.
Sicuramente diversa sarebbe stata la pena riservata a Domenico, accusato di aver ucciso alcune persone, se in Italia fosse ancora in vigore la pena di morte. Atto orrido e disumano, che va conto i diritti fondamentali dell’uomo e che nega ai colpevoli la possibilità di pentirsi e di riabilitarsi, fine che invece ha la galera.
Proprio per parlare del compito che hanno le carceri di reintrodurre i prigionieri nella società, abbiamo avuto come ospite in classe il papà di Leonardo, che gestisce una cooperativa volta proprio alla riabilitazione dei detenuti. Essi così svolgono lavori utili alla società, come tagliare l’erba delle aiuole o ripulire le strade.
Elena Pescetelli
Il tema della prigione è un argomento molto importante ai giorni nostri, anche se non viene molto trattato. Il film mi ha lasciato forti emozioni, perché vedere che ci sono persone che si preoccupano di coloro che non sono molto stabili mentalmente, non è una cosa che si dà per scontata. Nel documentario vengono esposti tutti i pensieri ed i sentimenti dei carcerati, raccontando tutti i loro pentimenti e riflessioni. Questo filmato mi ha colpito particolarmente perché si vedono i prigionieri ridere e scherzare, provando ad imparare i copioni assegnati e ironizzando con gli agenti, molto comprensibili nei loro confronti. Mi ha impressionato notevolmente quando i detenuti raccontano le loro vecchie storie e le loro famiglie, Emozionano chi ascolta, riuscendo a farli immedesimare e capire il loro dolore.
Io credo che i carcerati debbano ricevere, oltre alle punizioni in prigione, anche del supporto psicologico, poiché le loro azioni vengono commesse molto probabilmente a causa di traumi passati o malattie mentali. Non penso che debba esserci l’utilizzo della pena di morte, se non per i colpevoli più spregevoli come gli stupratori o i serial killer. Questa esecuzione mortale non risolverebbe nulla, ma anzi risulterebbe comoda ai detenuti, che preferirebbero la morte ai lavori forzati. A mio parere essi andrebbero capiti e aiutati, specialmente se si vede un loro interesse nel cambiare.
Mercuri Rebecca
Sia la figura del detenuto che quella del carceriere infondono un senso di profonda separazione e solitudine, come se ci fossero, di fronte ad ogni persona, delle sbarre immaginarie che possono essere rappresentate da malintesi, giudizi, bassa autostima, paura del confronto e quant’altro possa essere considerato un elemento di divisione che ci fa sentire soli in un mondo che non riesce a comprenderci. Tanti sono i fattori che isolano l’uomo dal resto della comunità, dalle idee politiche all’orientamento sessuale, dal ceto sociale al livello di istruzione, dall’origine etnica alle idee religiose, eppure l’esperienza dei detenuti in questo carcere fa riaffiorare quel pizzico di solidarietà e di umanità e sperare in un mondo migliore. Che siano detenuti per uno scippo o per qualcosa di molto più grave, o che la loro pena sia all’inizio o quasi scontata del tutto, c’è tra loro complicità e comprensione che ci permettono di vedere che in fondo in fondo ognuno di noi ha bisogno di essere amato per quello che è. Riflettendo sul nostro vissuto, dopo due anni di pandemia, per tutti noi è come se fossimo stati in un carcere, a volte con l’impossibilità di relazionarci con gli altri, sia al lavoro che a scuola che in famiglia, a volte con l’impossibilità di dare un ultimo abbraccio a un nostro caro. Siamo costretti a stare lontani da tutto perché con le mascherine che nascondono i sorrisi, sempre più in silenzio, diamo voce ai social che in fondo ci dividono ancora di più, aspettando che le cose vadano meglio. Dovremmo provare a dare voce ai nostri sogni e alle nostre aspirazioni, Per far sì che le sbarre che ci dividono, un giorno, possano scomparire e che l’umanità e la solidarietà abbiano la meglio su tutto.
Giulia Onori
dal numero di settembre di Voci di dentro
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