“Il Bene e il Male sono due realtà infinitamente lontane collegate tra loro da un filo sottile… Una corda tesa sull’abisso del nulla unisce le due contrapposte estremità, e noi uomini, come funamboli, su quella corda tesa siamo costretti a camminare per poter arrivare da qualche parte”.
Funamboli. Un’immagine che dà le vertigini. E ancor più stordisce quando, più avanti… “Sulla corda tesa fra il Bene e il Male io ho trascorso quasi la mia intera esistenza”. Parole di Juan Dario Bonetti, che è persona detenuta. Ha partecipato, insieme a un gruppo di altri detenuti, al Laboratorio di Pratica filosofica della sezione Alta Sicurezza nella casa circondariale di Rebibbia. Un sorprendente esperimento di pratica filosofica, dal fondo di quel luogo, il carcere, che è caverna, ma è anche antro dentro ciascuno di noi…
“Nell’immaginario di ogni filosofo, almeno nella tradizione occidentale che inizia dalla Grecia, c’è un carcere che fa da sfondo o scena almeno a due dialoghi di Platone, l’Apologia di Socrate e il Fedone” spiega Emilio Baccarini, che insieme a Fernanda Francesca Aversa ha guidato gli incontri. Così “la modalità dell’esercizio della pratica filosofica è stato proprio il dialogo socratico come ricerca di una verità condivisa e da nessuno preliminarmente posseduta”.
E immaginiamo con lui lo spazio di una cella che diventa “uno spazio di libertà dove è stata pensata la vita e messo in scena il mondo”.
“Abbiamo esplorato il significato delle emozioni attraverso il racconto delle esperienze vissute, lasciandoci ispirare dalla letteratura e dall’arte” racconta Francesca Aversa.
E si ragiona, sul bene, sul male, sul giudizio, la paura, l’amicizia, l’amore, il viaggio, lo spazio, la libertà, cosa significa scegliere… “perché ogni argomento può essere trattato filosoficamente”. E in maniera quanto mai concreta, partendo da esperienze personali. “Per alcuni di loro si è trattato di un viaggio di scoperta e trasformazione di sé, un conoscersi che non è più soltanto specularità, ma avventurosa navigazione… la dura prova di un processo faticoso, la ‘seconda navigazione’ a remi di platonica memoria”.
Insomma, mettere mano ai remi, quando cadono i venti e la nave rimane ferma. Accompagnati da Socrate e Platone, e poi Nietzsche, Heiddeger, ma anche Sartre, Pessoa, Verga, qualche sprazzo dell’Iliade…
Il risultato è condensato negli scritti di dodici autori, raccolti in un libro: “Naufraghi… in cerca di una stella” (edito da UniversItalia). Scritti che, tutti, si aprono come una vertigine sull’esistenza. Sul senso del rapporto con sé e con gli altri. E si fanno leggere, vi assicuro, tutto d’un fiato.
Spigolando qua e là…
Fabio Falbo, “resiliente nella caverna”, con tutto il peso dell’ “eccesso di dolore” della propria condizione (“esagerato” è aggettivo che ritorna spesso nelle lettere che ricevo dal carcere), si immagina gladiatore che dalle sofferenze, dal dolore, dalle tragedie… deve far uscire il meglio di sé, e “non si può osservare alcuna cosa bella, se non si intende la schifezza dell’esistenza e il dolore più ripugnante e deturpante”.
Pietro Lo Faro dialoga con se stesso attraverso il mito di Sisifo di Camus… si interroga e ci interroga sul realissimo vivere inautentico cui costringe il carcere e poi: “è stato molto più semplice per me scegliere la via del crimine… è anche vero che ora, è altrettanto vero che trovare un lavoro onesto quando hai diverse condanne alle spalle, e l’interdizione perpetua, è compito piuttosto arduo… come potrei reinserirmi nella società civile se il legislatore stesso, per tutelare la società, mi esclude da essa a priori?”.
Si avverte davvero invalicabile quel muro che la società tutta ha costruito intorno alla “colpa”, come fosse sempre e solo affare d’altri, “eppure continuo a studiare e a coltivare in me il pensiero che potrei un giorno essere considerato altro che non un delinquente”. Perché “riconoscermi negli altri è un’esigenza di cui ancora oggi ho bisogno”. E quanto è vero, se noi tutti siamo l’immagine che ci restituisce lo sguardo dell’altro…
Giuseppe Perrone, ancora, sa che farsi conoscere rende l’altro tranquillo, e chiede di essere conosciuti e riconosciuti per quello che si è diventati. Chiede: “Vi prego di rispondere a queste domande: immaginate i lineamenti del mio volto simili a quelli del mostro o vicini ai vostri? Ritenete che il mio nome sia impronunciabile?” E mi è sembrato riecheggiare, nel ritmo delle sue domande, l’accorato domandare della poesia di Auden, “La verità, vi prego, sull’amore”…
Giuseppe che chiede, a noi tutti, di esercitare il dubbio, uscire dalle prigioni delle nostre certezze.
Ritorna (ne avevamo parlato, come premessa della rivoluzione del “filosofo” Basaglia) la necessità della sospensione del giudizio. Per aprirsi alla conoscenza, alla conversazione, al riconoscimento dell’altro…
E sarebbero da citare uno per uno ciascuno dei dodici autori del libro, dodici “naufraghi” che non cercano terra, ma la luce di una stella… ognuno capace di parole profonde e dense, a offrirci il racconto del proprio faticoso remare su un mare senza vento.
Poco prima di Natale c’è stata a Rebibbia la presentazione del libro (una seconda ci sarà questa settimana, mercoledì pomeriggio a Roma se, di Roma, foste interessati, a Moby Dick a Garbatella). Valeva la pena di essere lì anche solo per assistere all’incontro fra Filippo Rigano (“Si può davvero parlare di libertà di parola, se le parole di alcuni restano inascoltate?”, esordisce il suo scritto) e Giulio Toscano, il giudice che lo aveva condannato e poi qualche anno fa reincontrato, per sentire le parole dell’ex magistrato che in Filippo ha saputo riconoscere l’uomo nuovo che è oggi, e ha detto fra l’altro una cosa bellissima: dare a coloro che sono in carcere la possibilità di studiare è restituzione di quello che in passato la società, le condizioni della vita avevano loro sottratto: il tempo dello studio.
Sulla copia del libro che al termine dell’incontro mi è stato regalato, una dedica: “nella speranza che questa lettura accresca la sua conoscenza dell’Uomo”.
Certo, molto sto imparando. E rileggerò e rileggerò, per provare a rispondere almeno a qualcuno degli infiniti interrogativi che si aprono quando si mette piede in un carcere, e si fa fatica a non restarne travolti.
“Naufraghi in cerca di una stella”. Quella che ne nasce è anche voce corale. Che è invito, preghiera, urlo sommesso, rivolto a tutti noi. Che ci dice che non possiamo continuare a voltarci dall’altra parte, che anche se ci riteniamo assolti, come cantava de André, siamo per sempre coinvolti…