Tre steli, di narcisi ormai spenti, sulla credenza della mia cucina. Ma non riesco ancora a tagliarli, quei fiori ormai secchi, come se ancora ne arrivasse il profumo che attira e imbriglia. E ancora soffia malie… Ché raccontano, quei fiori, una fiaba che arriva dalla Sicilia, e che i pescatori raccontavano ai figli nelle sere calde sul margine dell’estate…
La storia della più bella del paese che non dimenticava mai di esserlo. Fiaba delle vanità e dell’amore di sé che uccide. “Non vi fidate di Narcisa…” sussurrano quegli steli morti.
Ascoltate.
Narcisa sapeva di avere gli occhi più azzurri, i capelli più biondi, il corpo più snello. Sapeva anche che in paese c’era un giovane che l’amava, un bravo pescatore che viveva in una bella casa, aveva una bella barca ed era incantato da Narcisa, bella da far girare la testa. E un giorno le chiese di sposarlo. Ma lei rispose: “Sposerò chi mi regalerà una camicia di lino, degli orecchini e un anello d’oro”. Lui, che l’amava, prese il fucile e andò sulla montagna, ma quando tornò con i doni per l’amata, lei ancora lo respinse, e ancora chiese: uno scialle di seta, scarpe di raso, una gonna di velluto…
Lui l’amava davvero e per accontentarla divenne brigante. Tornò con tutto quello che Narcisa aveva chiesto ma lei ancora non era contenta. E il giovane, che di lei era preso fino allo stordimento, vendette tutto quello che aveva, la barca, la casa… divenne povero. Di un povero, capite bene, Narcisa non sa che farne…
E’ proprio vero. La testa bisogna perderla in due, altrimenti è un’esecuzione. Parola di Bukowski, che trovo nelle pagine di un libro al quale mi aggrappo per capire, e provare a uscire dalla sottile angoscia che questa storia mi trasmette.
“I belli e impossibili, come riconoscerli e liberarsene” di Antonella Lia, psicologa e sociologa che sempre tengo d’occhio da quando ho incontrato il suo, “Abitare la menzogna”, che della retorica della famiglia perfetta svela tranelli e mostruosità.
Quanti narcisi intorno a noi… in quante “tattiche” e reti si è pur finiti… e qualche volta i “narcisi” siamo noi… Antonella Lia è molto abile nel tessere storie, che tutte hanno radice nella sua esperienza professionale, e quindi vere, che sono racconti, che mettono a nudo realtà che non vogliamo o non siamo in grado di vedere.
Così si palpita per Claudia, affamata d’amore, che a un tratto quasi si riconosce nella protagonista di “Angoscia” (Ingrid Bergman, nel film di George Cukor, 1944) che il marito cerca di far impazzire insinuando cose non vere… si fa il tifo per Luisa, che “c’è cascata come una pera cotta, ma subito si è accorta che è Salvatore a dettare le regole”… vorremmo tanto che Clelia urlasse le sue emozioni, soffocate dalla violenza fisica e morale del marito… seguiamo col fiato sospeso Raffaella, che si scopre donna stalker! Perché Narciso è persona, uomo o donna, che non può intendere la relazione al di là della sopraffazione, della manipolazione. Narciso, vittima lui stesso della propria incapacità d’amare, ma che pure si traveste ed esibisce doti che non ha…
La galleria di ritratti di “Belli e impossibili” (sottotitolo, storie di narcisismo ordinario e di straordinaria follia) sembra infinita. Perché mille sono i modi e i volti di Narciso. Carnefice e vittima, se narciso è stato bambino a sua volta sedotto. Se col disamore si può distruggere e annientare. Uccidere, anche…
Tornando alla fiaba. Il giovane respinto diventò un soldato di ventura, andò in terre lontane dove incontrò una persona che divenne suo amico e al quale raccontò le sue pene. E un giorno morì. Dopo la sua morte l’amico volle andare a vedere chi fosse mai quella Narcisa, e quando la incontrò fu lei che disse: “Sono Narcisa e mi voglio sposare!”. Ma l’uomo che sapeva dei suoi capricci la respinse.
Nessuno nel paese volle più Narcisa, che scappò sulle montagne e pianse e pianse, tanto che a un certo punto si annoiò anche del suo pianto. Si fermò accanto a un ruscello dove vide la sua immagine riflessa. “Sì sono proprio bella. Non c’è nessuno per il quale valga la pena piangere”. E rimase ad ammirare i suoi vestiti, il suo bel viso. Malattia della vanità che imprigiona in se stessi.
Quale sogno vedeva nell’acqua, quale verità giaceva per lei sul fondo…
Ma forse è solo narcosi dell’immagine ripetuta che rivede se stessa…
Fece buio, e Narcisa per vedersi meglio si avvicinò ancora di più all’acqua, ancora di più ancora di più… vi cade dentro e morì…
La storia di Narcisa finisce qui. Nessuno nel paese andò a cercare il suo corpo. Ma forse chiesero di lei le divinità del bosco, le stesse che all’inizio dei tempi andarono a cercare il corpo di Narciso, e che allora trovarono affacciate sull’acqua le corolle di quei fiori dal profumo intenso, che attira e stordisce ed è, anche, veleno. Dicono che gli animali che ne hanno mangiato il bulbo ne sono morti.
E su questa riva, dove il ruscello diventa mare, e l’acqua si ingolfa fra le terre, sembra anche a noi di sentire un richiamo…
Scinne cu ‘mme/Nfonno o mare a truva’/Chillo ca nun tenimmo acca’… https://www.youtube.com/watch?v=VFfowVhwEHE
Aiuto…
Adesso zittisco questi steli morti. Li taglio e metto a dimora i bulbi. Se ne parlerà la prossima primavera…