Andando al presidio in via Tasso, domenica, giorno in cui sono state cancellate le scritte apparse il 27 scorso sul muro del Museo della Liberazione. “Olocausto propaganda sionista” e “27-01. Ho perso la memoria”. Scritte nere, che si è avuto cura di fare comparire proprio nel giorno della memoria. Apparse come l’appunto di uno sberleffo. Per essere sicuri di non perderla, noi, questa memoria, bisogna provare a salire quelle scale, entrare negli appartamenti dell’edificio, a un passo dalla basilica di San Giovanni, che nei mesi dell’occupazione nazista di Roma ( dall’11 settembre del 1943 al 4 giugno 1944) venne utilizzato come carcere del Comando della Polizia di Sicurezza. Perché, credo, c’è un potere dei luoghi che è più forte di quante parole si riesca a mettere insieme. Negli appartamenti di via Tasso, trasformati in luoghi di detenzione e tortura, il dolore e lo strazio di quei giorni è ancora tutto lì, e ti salta addosso. Impossibile non sentirne le voci. Non c’è neanche bisogno di chiudere gli occhi. Basta lasciare che lo sguardo scivoli intorno. Sulle finestre murate, a chiudere al mondo. Sui pochi ritagli di stoffa, di quel che resta di abiti macchiati di sangue. Sulle scritte graffiate dell’intonaco di una cella. E tutto è ancora più atroce, se i disegni fiorati sulle pareti, la cappa di una cucina, un lavello di marmo grigio, di quelli che c’erano un tempo, ricordano il tempo “normale” della vita che pure lì era stata. Quasi a ricordarci ancora una volta la banalità del male. Che arriva a insediarsi nei luoghi della vita che pensiamo tranquilla. Accomodato in un salotto, seduto al tavolo della cucina di casa. Ed è la cosa che forse fa più orrore.
E poi leggere le scarne parole della burocrazia che ha dettato gli ordini di servizio messi ora tutti lì in fila intorno alle pareti. Poche parole, pochi numeri, su foglietti ingialliti. L’ora di inizio degli interrogatori, l’ora della fine degli interrogatori. L’ora dei trasferimenti, delle consegne. Gli ordini di esecuzione. E poi le foto. Degli uomini che lì sono stati rinchiusi, prima di essere uccisi. Giustiziati, recita qualche rapporto. Come ci fosse qualcosa di giusto e di pulito ( e l’offesa alla parola giustizia, che ancora facciamo usando il termine giustiziato, è cosa che non ho mai capito).
E poi le foto, le testimonianze. I pochi oggetti. Delle vittime delle stragi e degli eccidi che insanguinarono Roma e i dintorni nel corso della guerra. Un museo scarno, quello di via Tasso, che nessun restauro ha ritoccato, e forse per questo luogo di memoria ancora più potente.
In questi giorni, al primo piano del Museo di via Tasso, è allestita una mostra sulla prostituzione forzata nei lager nazisti. Una pagina di estrema crudeltà rimasta a lungo nascosta. Nascosta, per vergogna, dalle stesse vittime. Nascosta dagli stessi prigionieri. E scoprire, ad esempio, i “buoni premio” che i prigionieri dei campi ricevevano dalle SS per una visita al ‘bordello’ come ricompensa per la loro buona condotta. E scoprire dell’organizzazione scientifica dei bordelli. E nomi di donne, che hanno atteso decenni prima di essere riconosciute vittime.
Quante cose non ricordiamo. Quante cose, fino a un minuto fa neppure conoscevamo.