Qualche divagazione, in tempo di Carnevale. A proposito di maschere e mascherate.
Leggendo, dell’infelice idea di una ditta inglese. Che ha proposto sul suo sito di vendite online una maschera da “piccolo migrante”. Pantaloni e camicia qualche taglia più grande, più da orfanello alla Dickens, per dire la verità…, un vestito slabbrato e valigia di cartone, più da migrante del secolo scorso, a ben guardare. Ma l’annuncio è chiaro: bambini-costume “profugo”. Misure 104-152. Costo 24-36 euro, e tutti i prezzi includono l’IVA. E non sembra essere stato uno scherzo di Carnevale. Ho letto della bufera che come si poteva immaginare subito si è scatenata e ha convinto gli amministratori del sito a ritirare l’annuncio, che è stato on line il tempo di un sospiro. Eppure, eppure… (…)
Mi è venuta in mente la storia, che mi raccontò uno psicoterapeuta, di una bambina, intorno ai cinque anni, che non riusciva ad accettare, anzi non riusciva a ‘vedere’ la morte del suo cagnolino finito sotto una macchina. Il fatto era che la bambina, che un cagnolino l’aveva mille volte visto morire, ma mille volte rimettersi in piedi nel suo giochino al computer, proprio non riusciva a capire perché anche quello suo, tutto pelo carne ed ossa, non si rimettesse in piedi. Ne sorrisi, allora. Ma è una storia terribile. Come l’idea di pensare un travestimento da piccolo profugo per bambini. Che è come dire ai ragazzini che è solo tutto un gioco… anche quelle immagini che pure avranno visto, anche quelle morti di cui pure avranno sentito parlare. Realtà, come dire, che mai li sfioreranno.
Interrogandomi, sul senso del nostro mascherarsi…
Apparteniamo sempre, vien da pensare, a un mondo dove qualche tempo fa, forse non trovando di meglio da mettere sul mercato, illustri stilisti hanno fatto a gara per portare sulle passerelle abiti modello “homeless street fashion”. Che solo chi può permettersi il lusso di tanta costosa finto -.povera mascherata può entusiasmare. Che vedendone un giorno un modello, con tanto di titolo allusivo agli stracci, al centro di una vetrina, qui a Roma nel quartiere san Giovanni, dove di gente stracciata che dorme per strada negli ultimi tempi ne incontri ad ogni angolo… bèh, un po’ di vergogna l’ho provata.
Interrogandomi, sul senso del nostro mascherarsi, che non è solo quello del Carnevale, la risposta nelle parole di Pirandello, uno degli scrittori che, letti nell’età dell’adolescenza, possono “rovinare” la vita, definitivamente chiarendola . “Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai molte maschere, poche persone”. Tragico, fulminante Pirandello.
Che è pensiero che arriva fino a noi, rivestendosi nuovi gesti e immagini…
E’ in queste settimane a Roma una mostra di opere di Nathan Sawaya, un avvocato newyorkese che un bel giorno decise di lasciare la carriera forense per dedicarsi alla sua più grande passione: i Lego. Che non è affatto, o non solo più, gioco per bambini. Che c’entra? Direte…
C’entra che scivolando fra le tante opere, a un certo punto si arriva in una sala dedicata alla condizione umana. La gioia, il dolore, l’amore… E c’è la maschera. Mask. Tutta costruita con mattoncini di lego, è la figura di un uomo che con le braccia tende a mezz’aria una maschera che copre la traiettoria dello sguardo. Rappresenta la metafora del non rivelarsi e ci ricorda, spiega l’autore, che le maschere che spesso indossiamo ci portano a non saper più riconoscere noi stessi.
Ma forse si può provare, qualche volta, a levarsela, la propria maschera. E se non siamo pronti a buttarla via, possiamo poggiarla accanto a noi, sul comodino, e di tanto in tanto guardarla. O lasciarsi guardare.
Vi confiderò che anch’io ne ho una, di maschera, che da tempo immemorabile mi guarda da un angolo della casa. E questo è l’appunto randagio preso un giorno che non mi riusciva di liberarmi del suo sguardo.
Dunque: “Maschera di Pulcinella. Plasmata da un artista-burattinaio che viveva a Parigi. Prima di arrivare a me, con lui la maschera ha attraversato ponti sulla Senna, valicato le Alpi, si è abbandonata a un ballo impazzito la notte di un Carnevale, fra i canali di Venezia. E la luna era gelida di nebbia. Ora, da questo suo angolo, la maschera poggia lo sguardo sul tempo. Quello di allora, quello di oggi. E tutto precipita nella fessura cava dei suoi occhi. Tace. Ma conosco l’accento del suo silenzio. Ora straniero, ora salato dell’acqua del mare del Sud. A tratti la fisso anch’io. E ancora non so, se maschio o femmina. Se diavolo o angelo. Se riso o pianto. Gli anni, a poco a poco, tessono ragnatele di crepe, a ferire il cuoio indurito. Ma è ancora presto, forse, perché la maschera cada”.
Che volete… il Carnevale, a queste latitudini, mi intristisce. E non c’era bisogno delle immagini dei costumi da piccolo profugo a rinfocolare mestizie…