E l’ho dovuta leggere due volte, questa raccolta di racconti di Emilio Nigro, “Malarazza”. La prima volta per la curiosità vorace di scoprire le storie, di annusare sentori, di sfogliare panorami e indovinarne il tempo. La seconda, ché, come potevo immaginare, è un libro da centellinare, dove ogni parola è un macigno. Come potevo immaginare dopo essere stata catturata dai suoi versi, anche qui Emilio ci regala parole di verità, d’accusa, sferzanti…
Per parlarci di malarazza, che sono “carne cattiva, non di razza, lo scarto. Storie di identità segnate”.
Segnate, come è la storia dell’amicizia di Gaetano, calzoni corti, scarpe bucate, camicetta ristretta, con il figlio dei “signori”, o la storia di Alcerti, e la sua famiglia/prigione alla quale infine sfugge solo con gesto definitivo, che è anche il destino di Cataldo, il figlio del sagrestano… sullo sfondo di panorami arsi dove “la speranza è cibo molesto. Ci si nutre senza saziarsene mai”…. e ci sono prigioni del cuore in cui si resta incastrati “come una catena, dall’amore che non muore”…
Mi fermo qui, che non vuole essere questa una recensione… ma solo restituire emozioni… e il piacere profondo di una lettura e di una scrittura che non fa sconti e scava nelle radici della terra, nelle radici dell’anima…
Per condividere anche un pensiero, che ritorna alle poesie di Emilio Nigro. A quell’uomo, ho pensato leggendo, dell’ “Edipo in fuga”. Che è uomo ovunque straniero, sì, ma mai straniero a se stesso…
E soprattutto in questo ho trovato la bellezza di “Malarazza”. Ed è bellezza sotterranea… rubo le parole a Emilio, che di bellezza nascosta parla in una sua riflessione a proposito di Napoli, che mi sembra ben si addica anche a questi suoi racconti. “Una bellezza che non sia inganno… una bellezza sotterranea per lo svelarsi dell’invisibile in segni fuori, nell’aria che verseggia. Sì, forse sì, bisogna sapere cogliere…”
Basta mettersi in ascolto, dice Emilio Nigro a proposito della bellezza di Napoli. Sentire cosa non ha voce. E ci riesce benissimo anche con questa sua gente di malarazza… come solo i poeti sanno fare. Leggendo, rimane la sensazione che neanche per un istante, neanche in questi racconti, Nigro dimentica di essere poeta… perché il tremore che qui regala, è lo stesso che arriva dalle sue poesie.
Ed è bella sorpresa, per me che amo le fiabe e da sempre ne leggo, scoprire che l’ultimo racconto ha proprio il tono della fiaba. E’ fiaba, con quel paese di case tinte tutte di giallo, e una sola nera nera, con tanto di mangiafuoco e burattini, burattini in carne e ossa, e l’eroe buono e l’eroe cattivo, e l’eroe buono che diventa infine cattivo, e poi e poi… una fiaba che non poteva che avere personaggi che “si muovevano come fossero mossi da fili anche quando i fili più non li trattengono”… dove la tristezza e il dramma si consumano… mentre “attorno, continuava la vita di sempre, ignara, malandrina, di sotterfugio”. Che è quello che tanto spesso ci accade intorno, e i burattini, fingendo di non saperlo, siamo noi…
“Malarazza”, Emilio Nigro. Qed Kòsmos/racconti