… Sembra una fiaba, vero? Ma quello che avete letto, è un brano dal romanzo dello scrittore sardo Benvenuto Lobina: “Po cantu Biddanoa”.. , un romanzo tessuto di “quadri” che sono storie della sua gente, per raccontare
“L’orto di Ti’Angiullina era chiuso con un muricciolo basso e pali piantati sul muro e tra un palo e l’altro era stesa una “cerda”, uno di quei graticci di “cadumbu” che i contadini mettono sul carro intorno alle sponde quando trasportano la paglia, ma grande, questa “cerda”, anzi erano molte, lunghe, io non so quante “cerdas” c’erano volute per recingere l’orto di Ti’Angiullina. Cento, almeno, o mille. Perché non so nemmeno quanto fosse grande l’orto di Ti’Angiullina, e se fosse situato davvero tra la via de Is Arenadas e il suo cortile, non sono nemmeno tanto sicuro che fosse in Biddanoa, forse non era nemmeno in Cielo ma in qualche altro luogo che nemmeno Dio sa dov’è. Però io volevo vedere l’orto di Ti’Angiullina, l’orto che non aveva visto mai nessuno. E un giorno ero salito sul muretto, e con un coltellino avevo cercato di fare un buco nella “cerda”. Ma era apparsa Ti’Angiullina ed io ero sceso dal muricciolo, vergognoso, e mi ero fermato davanti a lei col coltellino in mano.
Ti’Angiullina era zoppa, aveva una gamba più corta dell’altra e camminava col bastone, un bastone come quello del dottore, ma di “arrideli” (lentischio). Ti’Angiullina portava la scriminatura in mezzo, se ne vedeva un pezzetto da sotto il fazzolettone color caffè. I denti di Ti’Angiullina erano grandi come pale di forno, ma bianchi come la neve, e quando rideva sembravano lucenti. Ma Ti’Angiullina non rideva quasi mai a bocca aperta, rideva a bocca chiusa, con gli occhi. La bocca di Ti’Angiullina era grande, ma le labbra non erano rosse né grosse, erano dello stesso colore del viso, del colore della luna. A volte le labbra di Ti’Angiullina s’increspavano appena, questo voleva dire molte cose.
Adesso Ti’Angiullina non era più zoppa, non portava più il bastone e camminava senza toccare terra, nell’aria. Ed io con lei, che mi teneva per mano. Quant’era bella Ti’Angiullina, adesso, io non sapevo cosa guardare, lei o le cose che mi mostrava, le cose che non aveva visto mai nemmeno Dio. “Questo è un frutto pieno di succo e di suono” mi diceva, ed io sentivo in bocca un sapore sconosciuto, dolce, ma con altri sapori in più, più buoni, e nelle orecchie un suono, un suono, doveva essere quello che sentono gli angeli.
E i fiori non erano fiori, erano alberi, no, non erano alberi, perché non avevano né tronco né foglie, i fiori erano colore e basta, e riempivano il cielo quanto era alto, ed il cielo era fatto di colori e di fiori, ed era tutto un fiore, grande, che non conosceva notte.
Io non so quanto tempo ero rimasto nell’orto di Ti’Angiullina. Ma quando stavamo per uscire, vicino alla porticina Ti’Angiullina si era fermata ed era tornata zoppa, col bastone. Aveva abbandonato la mia mano e si era inchinata: “Cos’è quest’erba verde che sta raccogliendo, Ti’Angiullina?”, le avevo detto. “Questa? È prezzemolo, Ninneddu. Devo farmi la cena”. Mi aveva preso di nuovo per mano ed eravamo usciti in cortile. Mi aveva guardato con quegli occhi sorridenti, le labbra increspate: “Vai, adesso: mamma starà in pensiero”. Non l’ho trovato più in nessun luogo, l’orto di Ti’Angiullina, per quanto l’abbia cercato”