Mi è arrivato oggi… “Le cayenne italiane. Pianosa, Asinara: il regime di 41bis”. di Pasquale De Feo ( per la collana, curata dall’Associazione Liberarsi, L’evasione possibile, editore Sensibile alle Foglie). Spiega De Feo: “Questo libro raccoglie testimonianze di persone che hanno trascorso anni e anni in regime di 41bis. Di cosa si tratta nello specifico capirete dai loro racconti. E’ cosa che va oltre quanto è possibile immaginare scorrendo le pur inumane restrizioni a cui detenuti in regime di 41 bis sono sottoposti… Ma tanta brutalità non nasce dal nulla. Nei miei lunghi anni di carcerazione ho letto e riletto della storia d’Italia interrogandomi sulle cause delle condizioni del nostro Sud e della gente che lo abita. E’ una storia, ho capito, che parte da molto lontano”. .
E ci vuole coraggio a leggere, come coraggio c’è voluto a raccontare, a ricordare… Ma è un pezzo della nostra storia, di cui non si parla, che non può essere ignorata.
Da qualche anno ho con Pasquale una densa corrispondenza. Questa è la post fazione che suo libro ho volentieri fatto: “Ho avuto fra le mani le bozze di questo libro nei giorni degli attentati di Parigi (…). E di tutto quel che ne è seguito, a proposito di allarmi, emergenze, invocazioni e promesse di misure “speciali”, annunci di modifiche di pezzi di Costituzioni… Difficile in questi momenti non farsi sovrastare dalla commozione, non farsi annebbiare la mente da paure, anche irrazionali. Ma ancora una volta ho tremato al pensiero di reazioni e provvedimenti che vanno nel senso di sospensioni del diritto, che spianano la via a violenze e orrori, da infliggere ad “altri”. Nemici di turno, senza andare troppo per il sottile.
E le testimonianze raccolte in queste pagine sono qui a ricordarci quello che di inimmaginabile può accadere, come è accaduto, sull’onda dell’emergenza, nel nostro passato prossimo. Cose, si sottolinea, che nessuno conosce. Cose che se pure se ne è sentita l’eco, forse si preferisce cercare di non sapere…
Inviate a Pianosa e all’Asinara, negli anni ’90, persone appartenenti, o presunte tali, ad associazioni di stampo mafioso, presero, dopo un breve intermezzo, il posto lasciato da persone che avevano partecipato alle bande del nostro terrorismo, per le quali quelle specialissime carceri furono allestite. Sembra basti questo per giustificare un’alzata di spalle. La parola “mafioso” sembra essere diventata una parola “magica” che a tutto ci autorizza, in termini di repressione e violenza nei confronti degli individui. Ci autorizza ad aprire pericolose aree di sospensione del diritto. Dimenticando che la negazione dei principi dello stato di diritto nei confronti del peggiore di noi, non può che aprire gravissime falle nella democrazia ed è cosa che prima o poi tutti può toccare… Le leggi emergenziali, che tutto sembrano giustificare, diventano buchi neri nei quali tutto può precipitare. A cominciare dalla nostra “civiltà”.
Basta guardarsi appena alle spalle. C’è un filo rosso che lega quel che accadde a Pianosa e all’Asinara ai fatti di Genova. Abbiamo dimenticato le inaudite violenze della caserma Bolzaneto trasformata in un vero e proprio lager dagli agenti del Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria? Il Gom… che in realtà raccolse l’eredità di un altro reparto, lo “Scopp” (Coordinamento delle attività operative di polizia penitenziaria), istituito nei primi anni ’90 … Dunque non parliamo delle “mele marce” con cui si giustificano, per quel che si può, singoli atti di violenza che qua e là pure saltano fuori nell’ordinaria vita del carcere. Ma di corpi di polizia che hanno agito su disposizioni precise. Come accadde anche nella scuola Diaz. E vittime furono uomini e donne, giovani e vecchi. Di ogni nazionalità e lavoro. Studenti, operai, qualche professionista. Lì dentro poteva esserci chiunque di noi. Nell’aprile di quest’anno per quei fatti la Corte Europea ha condannato l’Italia: fu tortura. Peccato che il nostro ordinamento non preveda il reato. E il parlamento non trovi tempo e modo di colmare questo buco nero.
Pianosa e l’Asinara… le violenze, le vessazioni, le indecenze… E sappiamo che ci furono morti, “pentimenti”, suicidi.
Credo ci sia voluto un gran coraggio a ricordare e raccontare di quel tempo. Perché il timore è anche di non essere creduti (come accadde a molti dopo Auschwitz). Perché quello che scatta è anche la vergogna profonda per aver subito vessazioni che tendono ad annullare l’individuo ( come può accadere a chi ha subito la contenzione negli ospedali psichiatrici, ad esempio).
Da alcuni anni scambio lettere con Pasquale De Feo, che questo libro ha voluto e curato. Dal carcere di Catanzaro prima, dalla Sardegna, Massama, adesso, dove De Feo è stato lo scorso anno trasferito, e dove ancora si trova mentre andiamo in stampa. Cattivissimo “per sempre”. E c’è da chiedersi se c’è da ragionare sull’irragionevolezza della carcerazione, se più di trentatré anni non sono bastati a “migliorare” un uomo. Eppure, questo “cattivissimo” che le leggi emergenziali, diventate come si sa ordinarie, vogliono inchiodato al momento del reato, molto mi ha insegnato. Tutt’altro che cattivo maestro. Perché Pasquale è persona che in carcere molto ha letto e studiato. E leggendo, e studiando, e approfondendo, ha cercato e cerca nelle vie della Storia le ragioni anche della sua storia individuale. Mi manda spesso, Pasquale, libri sulla storia d’Italia e del Meridione, facendomi anche vergognare di mie ignoranze in proposito, io che pure sono nata a sud del Garigliano, e lì mi è rimasto il cuore.
E molto mi ha insegnato, e insegna a tutti noi con questo libro, sul dovere della memoria.
Non dobbiamo permettere, ci dice, che le cose terribili commesse all’Asinara e a Pianosa scivolino nell’oblio. Perché ciò che non si ricorda non si corregge e si ripete. E l’abbiamo visto.
Ma siamo sempre in tempo a conoscere e scandalizzarci per gli episodi, della nostra storia che è appena ieri, che ancora non ci fanno scandalo. Serve, e questo è il punto, per cercare di stare bene attenti, almeno oggi, a non accettare cose di cui potremmo scandalizzarci e vergognarci in futuro, accecati da questa parola, “emergenza”, che tutto ( e quindi niente) sembra significare ma tutto vuole giustificare.
Da quando mi è capitato di leggerne, sempre ricordo un memorabile intervento dai banchi dell’aula del Parlamento, dove sedeva fra le fila dei Radicali, di Leonardo Sciascia. In tempo di terrorismo, intervenuto per invitare a non abdicare ai principi dello stato di diritto, era stato accusato di “alleanza oggettiva” con i nemici di allora. Le sue parole: “sono stanco di essere accusato di alleanze oggettive con questo o con quello… queste alleanze, mosse in accusa a chi difende certi diritti civili che si vogliono dimenticare, o a chi discorda da opinioni che si vogliono totalitarie, è uno dei ricatti che più pesa nella vita italiana”.
Chiedendomi se questa convinzione avrebbe tenuto ferma anche nei confronti di mafiosi, presunti e non, Sciascia che in maniera così profonda ha indagato e raccontato la Mafia e le sue violenze. La mia intima convinzione è che sì, che restando sempre fedele all’uso della ragione, in nessun caso avrebbe acconsentito alla rinuncia dei principi dello stato di diritto.
Cosa che invece, purtroppo, nelle nostre carceri, sempre sull’onda dell’emergenza esplosa un quarto di secolo fa, ancora accade. Penso ancora al regime del 41bis, regime che perdura, e se non ci sono più sistematici pestaggi ( ce lo auguriamo), continua la violazione di elementari diritti della persona. E’ di questi giorni un’importante relazione della Commissione Diritti Umani del Senato, presieduta da Luigi Manconi, che al termine di quasi due anni di indagine conoscitiva sull’applicazione del 41bis, chiede interventi che ripristino il rispetto delle garanzie previste da norme nazionali e internazionali, e chiaramente parla di un “surplus di afflizioni, privazioni e restrizioni che non sembra avere ragion d’essere nella logica, prima ancora che nella legge”.
Ho conosciuto persone che il carcere “duro” l’hanno subito per più di dieci anni, ho letto scritti di persona a cui il regime è stato rinnovato dopo il quindicesimo anno… sorvolando sulle condizioni fisiche e psichiche con le quali si esce, se si esce, e se si esce vivi, da tale condizione, faccio mio il dubbio espresso dai penalisti della Camera penale di Roma in una pubblicazione in cui si denuncia il 41bis e le sue lunghe proroghe: “… visto che si tratta di misura giustificata con la necessità di recidere i legami del detenuto con l’associazione di appartenenza, se i lunghi anni non sarebbero bastati a recidere quei legami, vuol dire che o il sistema è inefficace, o si vuole ottenere altro…”
E per ottenere questo “altro” in Italia, ancora, c’è una non dichiarata licenza di tortura… che altra definizione non trovo.
Francesca de Carolis