“Come mi duole la testa, madre, dentro di me qualcosa resiste a scendere ancora una volta in quelle grotte, negli inferi, nell’Ade, dove fin dai tempi antichi si muore e si rinasce, dove con l’humus dei morti si cuoce ciò che è vivo, dalle Madri dunque, dalla dea della morte, all’indietro. Ma che significa avanti, che significa indietro”.
Parlando di donne, ritornano ancora una volta le parole di Medea. Non quella di cui abbiamo letto nel testo di Euripide, che la racconta maga, barbara e assassina e che ancora pensiamo capace di uccidere i suoi figli. L’altra Medea, quella che Christa Wolf ha ritrovato in antiche fonti che parlano dei suoi tentativi per salvare i propri figli, tra l’altro “conducendoli nel santuario di Era dove li crede al sicuro, mentre però i Corinzi li uccidono”. Fonti antecedenti Euripide, che sembra avesse manipolato la storia per ragioni di stato. Perché c’è sempre bisogno di una donna da lapidare… c’è sempre qualcuno da piegare a quel che a noi meglio serve…
Scorre la Storia, cambiano i tempi, le dinamiche, le ragioni… Ma nel fondo più profondo del nostro aggrovigliato sentire, checché se ne dica, rimane intatta l’amara pulsione di sempre: che nasce dall’idea di dominio sulla donna come su cosa in proprio possesso, e in qualche modo di propria pertinenza, da usare a proprio uso e consumo. Che quindi violento e sfregio (questa cosa) se vuole sottrarsi al mio dominio, se mi sfugge, se non accetta le mie regole. Oppure uccido. E uccido con lei anche i suoi figli, soprattutto se poi mi ucciderò anch’io, perché non riesco a immaginare come possano mai sopravvivermi coloro, madri e figli, che “disperatamente” amo. Scorrendo le cronache, le terribili cronache quotidiane di violenza e di morte, tanto quotidiane da farci l’abitudine… Siamo sempre un paese che ha abrogato il delitto d’onore solo un pugno di decenni fa.
E quell’amara pulsione di sempre guida condotte private e condotte pubbliche. Come non pensare alla violenza sul corpo delle donne, usata da sempre come arma di guerra? Ne distogliamo lo sguardo inorriditi, ce ne scandalizziamo, condanniamo con roboanti proclami ufficiali. Eppure, eppure…
Come non pensare con avvilimento alla risoluzione approvata nella primavera del 2019 dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu che ha condannato l’uso dello stupro come arma in guerra, ma perché la risoluzione venisse approvata è stato necessario rinunciare all’istituzione di un meccanismo formale per monitorare le atrocità durante la guerra. E si è dovuto rinunciare persino alla parte che riguardava “l’assistenza alla salute riproduttiva”, cosa che riconosceva il diritto delle donne vittime di stupro ad abortire, ché altrimenti gli Stati Uniti avrebbero opposto il loro veto. Insomma, ancora “il tuo corpo è nostro e lo gestiamo noi”.
Siamo sempre fermi là. All’idea maschia del dominio su cosa nella sostanza considerata in proprio possesso. Una condizione che le donne condividono con i bambini e, aggiungo, con gli animali. Sì, non scandalizzatevi, anche con gli animali.
Qualche anno fa, nello scorrere compulsivo di immagini sulle libere reti del nostro web, mi passarono sotto gli occhi in sequenza alcune immagini: un mucchietto di quattordici cuccioli di cane fra i rifiuti dove erano stati buttati e, subito dopo, i corpi dei bambini straziati negli attacchi delle ultime guerre, a Gaza, in Siria…
Mi sono fermata e le ho messe le une accanto alle altre, passando lo sguardo dai cuccioli di cane a quei cuccioli d’uomo, cagnolini e bambini fra i detriti della nostra crudele inciviltà.
Troppo? Eppure, eppure… non si cancelleranno mai dalla mia mente le parole di Milan Kundera, ne L’insostenibile leggerezza dell’essere: “Il vero esame morale dell’umanità, l’esame fondamentale (posto così in profondità da sfuggire al nostro sguardo) è il suo rapporto con coloro che sono alla sua mercé: gli animali. E qui sta il fondamentale fallimento dell’uomo, tanto fondamentale che da esso derivano tutti gli altri”. Animali, bambini, donne, stranieri…
Finché non morirà questa cultura che ci fa pensare che in qualche modo un essere vivente possa essere nella nostra disponibilità, in nostro possesso, perché nella sostanza in qualche modo a noi inferiore, nulla potrà cambiare.
Ancora una riflessione, anche se forse vi sembrerà un salto azzardato, che non c’entri nulla… ma parlando di violenza subita dalle donne, non riesco a non pensare in questi giorni alla bambina nata in Ucraina dopo una maternità surrogata, e poi abbandonata dai genitori italiani che pure l’avevano “voluta”. Non riesco a non pensare alla bambina e alla donna che sarà. Non so cosa sia passato nella mente di quei genitori, immagino anche dubbi e tormenti… Rimane l’immensa violenza fatta a questa bambina. Non ricordo chi ha detto che oggi confondiamo i desideri con i diritti… e quanta violenza sulla pelle di questa bambina, vittima di un desiderio, malinteso diritto, andato a male…
Per questa bambina, per la donna che sarà e per tutte le altre donne vittime di chi continua a pensare che siano nella propria disponibilità, ancora il pianto di Medea, l’altra…
“Come mi duole la testa, madre…”
scritto per il numero di novembre della rivista “Voci di dentro”