Da oggi, e per qualche giorno, vi racconto una storia… Anzi ce la racconta Pasquale De Feo, che dal carcere di Catanzaro me l’ha mandata… Pasquale, con il quale ho un assiduo scambio di lettere, è stato condannato all’ergastolo, ostativo… classe 1961 è in carcere dal 1983, pensate… è più il tempo della vita trascorso in carcere che fuori… qualsiasi cosa abbia commesso a 21 anni, pensateci un pò…. Quello che mi ha colpito in lui, la sua voglia di studiare per capire… per capire non solo il percorso e le ragioni della sua vicenda personale, ma anche quella della Storia, sì quella con la S maiuscola, nella quale la sua è inscritta… E questo racconto qualcosa di lui rivela… buona lettura.
“Ormai erano rimaste un mucchio di pietre, qualche muro in piedi e alcune travi di castagno ancora visibili a dimostrazione che un tempo era stata una casa. Seduto su muretto, guardavo un cumulo di rovine, dove aveva vissuto fino alla sua morte “Pascale varvone” (Pasquale barbone), come era soprannominato il mio trisavolo, il capostipite della famiglia. Si chiamava Pasquale De Feo, come me. E come la stragrande maggioranza dei Meridionali, si era ribellato all’occupazione della sua patria da parte dei piemontesi. Aveva ucciso tre soldati o carabinieri savoiardi. Fuggiasco, si era stabilito in un paese del Cilento, da dove discende la mia famiglia, e dove vive mio padre, nella casa natia.Finalmente ero a casa. C’ero tornato dopo trent’anni di carcere. Mi avevano concesso un permesso per vedere mio Padre che non vedevo da moltissimi anni. Il tempo era trascorso anche per lui. Trovai un anziano con tutte le patologie della vecchiaia, ma sempre vispo e di buonumore. (…) Dopo la morte di mia madre, si era ritirato nella casa paterna, che aveva ereditato. Lì era nato e cresciuto fino al suo matrimonio, quando si era dovuto trasferire nella Piana del Sele, sempre in provincia di Salerno. L’aveva messa a nuovo con i soldi del trattamento di fine rapporto lavorativo. Ormai pensionato, cercava di godersi il suo sogno di passare la vecchiaia al paese e finire i suoi giorni dove li aveva iniziati. Passai una giornata intera a parlare con lui. Non ricordo di averlo mai fatto prima. Me lo ero ripromesso in carcere, alla prima occasione avrei trascorso tutto il tempo che mi fosse stato possibile parlando con lui.
Parliamo poco con le persone a cui vogliamo bene, non ce ne rendiamo conto, lo riteniamo scontato, superfluo. Quando poi non ci sono più il rimpianto ci sferza l’animo con la nostalgia. Parlammo di tante cose, del passato, del presente, del futuro. Di chi non c’era più, come mia Madre. La sua morte fu un fulmine a ciel sereno, scosse come un uragano tutta la famiglia, lasciando un vuoto che ancora oggi a distanza di dodici anni si fa sentire. Scherzai, rammentandogli che se fosse ancora viva Mamma lui non sarebbe nel Cilento. Mio Padre ha sempre detto che quando sarebbe andato in pensione sarebbe ritornato al paese, nella casa natia, anche per questo nella spartizione dell’eredità aveva chiesto la casa. Mia Madre ha sempre avversato questo progetto, dicendo sempre di no, e ricordo che una volta disse che lei non ci sarebbe andata mai e se proprio voleva mio Padre poteva andarci da solo. Non gliel’ho mai chiesto, ma credo che la sua opposizione fosse dovuta ai brutti ricordi della sua infanzia. Proveniva anche lei da un paese dell’entroterra cilentano, rammentava i racconti della fame e miseria più nera, talmente poveri che mettere un piatto a tavola era un problema. Ricordo che ci raccontava un episodio che somigliava a “Miseria e nobiltà”. Suo fratello Antonio non si perdeva una festa sia patronale sia privata, si riempiva le tasche di cibo, anche di pasta col sugo, a casa lo aspettavano fratelli e sorelle ed era una festa. Mia Madre ci trasmetteva con “li cunti” tutta la conoscenza della sua famiglia, come aveva appreso dai suoi genitori e gli zii, così faceva con noi. Anche le situazioni più tragiche le raccontava in modo da esaltare il lato comico.
Con mio Padre colsi l’occasione per stimolare la sua memoria, ero interessato a sapere tutto quello che gli avevano raccontato sul nostro capostipite. Non sapeva molto perché l’argomento era tabù, suo padre ( mio nonno) non permetteva nessun discorso in merito. Conosceva le voci del paese, che sostenevano fosse un brigante alla macchia. Neanche suo nonno Nicola ( da cui aveva preso il nome mio padre), che era figlio del capostipite, gli aveva mai raccontato niente. Credo che ciò sia dovuto al fatto che all’epoca la bestiale feroce repressione piemontese con l’ausilio di scribacchini savoiardi, trasmisero terrore e senso di vergogna nelle popolazioni meridionali, per chi aveva un familiare o parente brigante che si era ribellato contro l’invasione savoiarda. In spregio alla verità furono vilipesi e fatti passare alla storia come briganti. Con la famigerata legge Pica resero un inferno il Sud, realizzando un genocidio, con un milione di morti, mezzo milione di arrestati, (?) cinquantaquattro paesi rasi al suolo, azzeramento di tutto l’apparato industriale, saccheggio sistematico delle ricchezze, e venti milioni di immigrati in trent’anni, fenomeno sconosciuto fino al 1860, ma molto conosciuto nel Nord d’Italia. Con la favola risorgimentale e il segreto di stato che dura tutt’ora dopo cento cinquant’anni, continua a scuola l’insegnamento della falsificazione della scuola.( 1-continua)
Pasquale De Feo