“E bastava un’inutile carezza per capovolgere il mondo”. Questo dolcissimo pensiero di Franco Basaglia mi torna in mente ritrovando un vecchio libretto, rimasto lì rintanato su uno scaffale della libreria. “La quinta felicità”. Sottotitolo, un anno con i matti della casetta. Autore Eugenio Azzola (editore Stampa Alternativa). Ancora non so se ci sia e cosa sia la prima… e se ci sia una seconda, una terza o una quarta felicità. Ma sicuramente c’è n’è una quinta. Ascoltate.“Devo scendere, la medicina sta facendo effetto. Devo andare! Sta facendo effetto! Ahaa! E’ la quinta felicità!” La frase è pronunciata, gridando e ridendo, sull’autobus 17, a Trieste, da un uomo che “a giudicare dal suo sguardo e dal suo aspetto avrei giurato che andava dove andavo io”, una persona che in qualche modo dà all’autore del libro il benvenuto nel mondo dei “matti della casetta”. Dove Azzola, pacifista, obiettore di coscienza, ha passato il suo anno di servizio civile, accudendo, appunto, i matti che lì vivevano. La casetta è un edificio che si trova all’interno del parco dell’ex-ospedale psichiatrico di Trieste, chiuso nel settembre del 1980. Un tempo ospitava gli “infettivi”, e vent’anni dopo la chiusura dell’ospedale, ancora vi rimane un pugno di ospiti, in manicomio entrati quando meno che adolescenti, e lì rimasti fra il resto dei padiglioni vuoti. Tutti ormai adulti, adulti rimasti bambini…Oggi a San Giovanni non abita più nessuno. Il grande parco ospita più di 10.000 rose, scuole, istituti universitari, servizi. Flì e i suoi compagni, quasi tutti ancora viventi, stanno in città. È l’abitare insieme, non più di tre per appartamento. “Ognuno deve avere il suo nome scritto sul campanello di casa” è stato il motto che ha accompagnato il progetto degli operatori, dei giovani del servizio civile, dei cooperatori sociali. Avevo letto “La quinta felicità” appena uscito, una decina d’anni fa. Lo riapro per ritrovare uno degli ospiti che mai sono riuscita a cancellare dalla mente. Laszlo.
“La mia prima passeggiata con Laszlo -scrive Azzola-, è per andare a prendere pane e latte. (…) Cerco di scambiare qualche parola con lui. Non l’ho ancora sentito parlare. Gli chiedo da dove viene. Esce una specie di soffio dalla sua voce spalancata, ha i muscoli delle mascelle molto deboli: “Hahia”. “Cosa?” “Zaha”. “E dov’è?”.. E’ la voce di un ferito a morte: “Eh, Zara… è un posto molto lontano”.
Laszlo, che era profugo istriano, e che uscendo da un cinema, dopo la visione di “Eyes Wide shut”, il film di Kubrick, con donne nude, notturni… commenta: “film de guerra, bello”.
Laszlo che davvero rimane nel cuore, lui che tanto tempo aveva vissuto in campi profughi, anni che sicuramente avevano inciso, drammaticamente, sul suo stato mentale…
Vale la pena di rileggerlo tutto questo libretto, seguendo il racconto di Eugenio Azzola, all’inizio forse solo curioso, ma poi completamente travolto e coinvolto dagli incontri di quei giorni, l’incontro con adulti rimasti bambini…
Ma tenetevi forte. Fortissimo è l’impatto con i corpi. Corpi, che, come sottolinea Peppe dell’Acqua nella prefazione al libro, “ingurgitano, bevono, digeriscono, metabolizzano, producono sudore, croste, sebosità, urine…”. Parla quasi di violenti “corpo a corpo”, che accadono nella casetta. Se ne prova, certo, disagio. Eppure Azzoli “non poteva non rappresentare quei corpi che, soli, erano sopravvissuti all’annientamento dell’Istituzione. I corpi erano stati oggetto della ‘manutenzione’ quotidiana instancabile e ripetitiva. E ora finalmente tornavano a ospitare emozioni, desideri, affetti”. Dei “corpo a corpo” Azzoli ha un ricordo come di momenti in cui ha imparato, anche, l’uso di una forza gentile che mai, assicura, è stata sopraffazione o violenza. Mai e poi mai, in una relazione, con quegli adulti-bambini, che subito diviene relazione di cura, di affetto, profondo…
Laszlo, e poi Esa e poi Euro, e poi Flì… nomi e volti e storie che l’autore non ha mai dimenticato. Né loro hanno dimenticato lui se, dopo anni, mi aveva detto Azzola, ancora lo cercano per un saluto, una parola…
Andate a leggere, e tenetevi forte, dunque, perché il linguaggio è crudo, ma nello stesso tempo, da relazioni che sembrano intollerabili, da percorsi che a noi sembrano sconnessi, nasce qua e là una sottile ironia.
Ancora Laszlo (e come poi poterlo dimenticare?). Una mattina, pettinandolo, Azzola gli chiede: “Dove vuole la riga? A destra o a sinistra?”. La sua risposta? “A Zara!”. Zara, la terra perduta, da inseguire tutta la vita sia pure solo nel pensiero, in direzione ostinata e contraria…
E quanti Laszlo intorno a noi. Penso a lui ogni volta incrociando quell’uomo seduto sul tratto di marciapiede fra il bar e il negozio di alimentari, a pochi passi dall’incrocio. E’ più di dieci anni che lo vedo. Arriva chissà da dove ogni mattina e lì rimane. Estate autunno inverno… Le braccia incrociate sulle ginocchia. A guardare la gente che passa. In attesa del niente. O di tutto. Con gli occhi buoni, che a volte si accendono. A volte, sono fessure di grigio che guardano lontano. Non parla. Non chiede elemosine. Solo, a volte, accetta sigarette. Da qualcuno che, con gesto non richiesto, intreccia gesti di sentire familiare. E se gli sorridi ti sorride, e a volte è lui a schiudersi per primo. Se c’è il sole senti che ne è contento, e i suoi pensieri chissà dove galoppano. Questa mattina ancora non lo vedo ma pure riapparirà, come sempre, come nato dal marciapiede. A confortarsi dello spettacolo del mondo che passa. O a guardarlo, come perplesso, dalla sua riva lontana. Il Laszlo del mio quartiere… Chissà dov’è la sua Zara. Chissà qual è la sua quinta felicità.
I libri… non ricapitano in mano per caso. Siamo alla vigilia delle giornate conclusive della Conferenza nazionale della salute mentale, che si terrà qui a Roma, il prossimo fine settimana. E non posso che immaginare… dietro i dibattiti, le valutazioni, l’impegno per chiedere un Nuovo Piano Nazionale, che sia capace di affermare il diritto alla tutela della salute mentale, respingendo qualsiasi tentativo di restaurare la logica manicomiale, per affermare i principi sanciti dalle leggi di riforma del 1978 … quante storie, quanti volti, quanti nomi… salvati, a volte, da quell’ “inutile carezza” che bastava per capovolgere il mondo…