Riflettendo sulle parole. Mi arriva un pensiero. A proposito delle distorsioni che ne facciamo. Volentieri pubblico e condivido. Pasquale, dunque, dice:
“E’ sempre più frequente l’uso della parola “buonismo”. Un’inclinazione soggettiva – essere buoni- è diventata, grazie alla desinenza ismo, una categoria filosofica o corrente culturale come marxismo, illuminismo, futurismo ecc. Sappiamo a cosa si riferisce chi ne fa frequente uso: un atteggiamento di tolleranza per persone e comportamenti non conformi, una pennellata di caramelloso dolcificante su conflitti generazionali, sociali e culturali per non vedere in faccia la dura realtà delle cose. A volte l’accusa, che sfiora l’insulto, fa’ esplicito riferimento politico alla cosiddetta componente catto-comunista della nostra società che, mescolando messaggi evangelici e dottrine socialiste, considera l’uomo buono o almeno degno di perdono.
Credo sia ancora in uso la mitica lavagna dove, in assenza temporanea dell’insegnante, il capoclasse aveva il compito di scrivere buoni e cattivi separati da una riga verticale. Dobbiamo riconoscere che spesso i buoni sono tali per inerzia e conformismo mentre i cattivi sono i più irrequieti e talvolta i più intelligenti. Che nella cattiveria ci sia una maggiore dose di realismo non c’è dubbio. E’ dimostrato anche nel gioco del calcio, grande metafora della vita contemporanea, dove il pubblico, ascoltando i commenti di giocatori e allenatori, si è abituato considerare vincente chi ci mette cattiveria e perdente chi non ce la mette. Solo quando si tratta di fare la pubblicità a un dessert un noto ex calciatore e sfortunato allenatore esclama: troppo buono.
L’elogio della cattiveria si sta trasformando in ideologia di hobbesiana memoria. E allora perché non suggerire ai comunicatori, creatori di neologismi, la parola “cattivismo”?” Pasquale