La bella testimonianza di Giovanni Lentini, dal carcere di Fossombrone, questo mese nella rubrica delle lettere della rivista “Una città”. Ascoltate cosa scrive….
“Vi racconto il mio impegno di disegnatore di icone.
Sono da tempo affascinato dalle icone, che silenziosamente mostrano, per mezzo della rappresentazione, ciò che che le sacre scritture ci comunicano attraverso la parola e l’udito. Così nel 2006, nel carcere di Bologna, ho iniziato un lungo percorso di studio e di fede, frequentando un laboratorio di icone. Percorso che ho potuto intraprendere e continuare fino ad oggi grazie alla collaborazione di alcuni componenti fondamentali, l’istituzione scolastica e quella universitaria, la direzione e l’area trattamentale degli istituti in cui sono stato recluso e soprattutto grazie all’ausilio del volontariato nella persona del maestro iconografo, Antonio Calandriello che ha messo le sue competenze a servizio di noi detenuti e che ancora oggi, nonostante la lunga distanza chilometrica che separa Bologna (città in cui vive) da Fossombrone, quasi con cadenza mensile, lascia i suoi impegni familiari e personali per recarsi a farmi visita nel carcere di Fossombrone in cui ora sono ristretto, per darmi nozioni artistiche, seguirmi e fornirmi del materiale necessario per realizzare i miei lavori.
All’inizio di questa esperienza, ciò che mi spronava a frequentare il corso iconografico, oltre il fatto che si usciva dalla cella, era il bisogno di mostrare che nonostante le difficoltà che ci sono nel carcere, luogo di restrizione e di grande sofferenza, si riesce a produrre qualcosa di positivo. Mi ero prefisso due obiettivi, quello di apprendere la procedura per dipingere le icone e quello di fare un approfondimento dal punto di vista culturale, cioè imparare il significato dell’immagine sacra, come si legge un’immagine sacra e il valore spirituale. Per usare una parola altisonante, conoscere il vero senso teologico dell’immagine.
In carcere molto spesso il detenuto tende a svalutarsi, a pensare di sé che non ha niente di buono. L’attività che svolgo invece riesce a far emergere l’abilità nel fare qualcosa e aiuta a rivalutare se stesso, è un’opportunità quotidiana per poter realizzare esperienze formative che possono avere l’obbiettivo di eliminare le barriere, i pregiudizi e l’emarginazione sociale che sovrasta l’anima di chi è detenuto.
Secondo la tradizione orientale il raffigurare nell’icona un personaggio della rivelazione divina è un po’ come entrare in comunicazione con la divinità con una preghiera silenziosa e in qualche modo sperimentare la bellezza di Dio attraverso i tratti dipinti, anzi, scritti dall’iconografo sulla tavola. Ogni linea, ogni colore, ha un suo preciso significato. Un esempio per tutti, le tre stelle sul manto della Vergine significano la verginità perpetua, ovvero: prima, durante e dopo il parto.
Realizzando un’icona si recuperano due aspetti di cui la vita carceraria ci priva: la libertà e la bellezza. È quindi un modo per recuperare proprio quella dimensione del bello che insieme al buono e al vero sono i tre segni fondamentali della presenza del divino nella nostra vita. La libertà del carcerato ovviamente è vincolata in modo drastico, invece questa attività dona a chi la esercita quella libertà interiore che deriva per me dall’accostarsi agli elementi della fede. Quella fede che, anche se il corpo è imprigionato, in realtà permette poi alla parte più sensibile di noi stessi di acquisire la libertà interiore che vuol dire anche capacità di scegliere e di dare un senso nuovo alla propria vita, nella ripetitività stordente delle giornate carcerarie in cui si cerca di scappare e di ridipingere nuovi orizzonti anche di tipo esistenziali.
Giovanni Lentini
Fossombrone