Guardando (sì l’ho guardata) la fotografia di Aylan Kurdi, il bimbo siriano sulla spiaggia di Bodrum… Pensando ad un’altra foto che circa un anno fa ho condiviso sulla pagina dei nostri appunti quotidiani che è diventato facebook. Era anche quello il corpo di un piccolo. Una bambina che mani, tutt’intorno, cercavano di estrarre dalle macerie di un bombardamento. Qualcuno ha commentato: “Non serve a nulla mettere queste immagini orrende”. Vi ho molto pensato, e molto vi avevo pensato anche prima, che sempre, davanti a immagini di corpi straziati, ne rimango lacerata. Eppure, eppure… il dubbio mi è sempre rimasto. Non serve proprio a nulla? E perché quella era più “orrenda” di altre? Magari solo formalmente più “pulite”. Gli stessi tormenti ora sulla foto di quest’ultima piccola vittima. Che ci sbatte in faccia una realtà che forse non volevamo vedere. Che anche i bimbi muoiono nella tragedia di questi terribili mesi. E come muoiono… Certo, lo sappiamo, ne avevamo letto e sentito. Ma non abbiamo abbastanza immaginazione per vedere e capire, esattamente cos’è, il dolore degli altri. (…)
Appuntai allora, riflettendo sulla foto della bambina sotto la polvere e i sassi, che, assuefatti a tutto, perdiamo il significato reale delle cose. Che dimentichiamo cosa significhi un bombardamento, ad esempio, come quello che ha ucciso tanti bambini come la piccola della mia contestata foto. Da buona ignorante fino a relativamente poco tempo fa neanche ci avevo mai realmente pensato. Come morire sotto un bombardamento significasse né più né meno che avere una botta in testa… Poi, leggendo di Dresda, (dal libro di Sebald che cito e stracito che è di quelli che mi hanno segnato la vita, “Storia naturale della distruzione di massa”) ho saputo esattamente quello che accadde ai tedeschi soffocati nei rifugi, a che temperatura fonde un corpo, alle menti ferite di chi sopravvive a un bombardamento e tante altre cose che se volete potete andare a leggere. E allora ho cominciato a distinguere. Fra immagini che trasmettono informazioni inutili e indecenti e quelle che riescono ancora a riportarci alla realtà delle cose… e che dovrebbero segnare, a cominciare da dentro di noi, un punto di non ritorno. Quel colpo d’ascia sul lago ghiacciato della nostra anima che secondo Kafka dovrebbe essere un romanzo. E sono le immagini, oggi, a comporre le trame dei nostri tempi.
Non nasconderci la realtà delle cose è, credo, ciò da cui partire, per provare a cambiare…
Ed ecco, forse, perché, anche, avevo condiviso e pubblicato la foto della bambina sotto le macerie. Perché non la trovavo più “terribile” di un’altra, che ben ricordavo, e in qualche modo me l’aveva richiamata e che aveva ricevuto il Premio World Press Photo, foto dell’Anno 2001. E’ la foto in bianco e nero di Erik Refner, fotografo danese, pubblicata dal quotidiano Berlingske Tidende. Era stata scattata in un campo profughi in Pakistan. Mostra il corpo senza vita di un bambino di un anno, avvolto in un lenzuolo bianco, mentre viene preparato per il funerale. La famiglia del bambino, originaria del Nord Afghanistan, spiegava l’autore, aveva cercato rifugio in Pakistan per fuggire alla drammatica situazione politica del paese…
Le due foto. L’una sembra fare da contrappunto all’altra, composizione e ricomposizione di gesti. In entrambe le foto mani adulte che cercano o che coprono, in questa per ricomporre, in quella per restituire alla pietà… Le storie. Entrambi i piccoli vittime della stessa ferocia. Le foto, cui metto accanto adesso quella del bimbo della spiaggia sul mare della Turchia, sottendono le tragedie che conosciamo e che, credo, tutte ci appartengono. Bisogna guardarle, per arrivare dove la nostra limitata capacità di immedesimazione e la nostra scarna capacità di immaginazione da sole non riescono più ad arrivare.
Guardando e riguardando dunque l’immagine del bambino siriano, ricordo il commento che a quelle degli altri due bimbi scrisse Pina, mia cara amica ( e non si è profondamente legati per caso) : “immagini che mostrano come tranquillamente viviamo accanto all’impossibile quasi senza accorgercene, e solo occhi speciali traducono poi l’orrore della quotidianità”. Credo dovremmo avere grande riconoscenza per gli occhi speciali, di chi, con tremore e pietà anche, fissando per noi immagini impossibili, ci ricordano l’impossibile che abbiamo partorito. E non per farci diventare più buoni… ( certo non farebbe male, ma buonissimi non lo saremo mai e forse è naturale che sia così, e poi questa è questione personale) ma perché queste immagini bussano, violente, alla porta della politica. Quella che ritrovi, si spera, il pensiero e il respiro di “P” maiuscola.
Guardando, ancora, la foto del piccolo Aylan Kurdi, perché non svanisca nell’indistinto dei numeri senza nome e volto. Mentre ancora rimanda all’enormità della tragedia che sottende. Che tutta sembra riassunta nel rumore sottile che arriva da quell’immagine, e che aveva ben percepito già nel secolo scorso Vincenzo Consolo, profetico come solo i veri scrittori sanno essere. “C’è qualcosa che non va. E’ come una musica stonata, come se le onde del mare facessero il rumore di un metallo che stride”.
E non serve a nulla tapparci le orecchie.