C’era una volta… e purtroppo qua e là ancora adesso… Bello e tremendo, questo racconto di Daniela Morandini….
ascoltate:
Per Natale, bisognava andare a mangiare dai nonni.
In ingresso c’era uno specchio inclinato, un attaccapanni a muro, una stufa di ghisa e un casco simile a quello del parrucchiere. In sala da pranzo c’era un tavolo intarsiato, una credenza déco con gli specchietti e una damina col cicisbeo sulle ante di vetro. Da un quadro, san Cristoforo, con Gesù bambino sulle spalle, proteggeva viandanti e barcaioli. Pare fosse l’ennesima mutazione di Anubi, il dio egiziano con la testa di un cane.
In soggiorno, il ritratto di un condottiero con la feluca in testa e una mano infilata nella giacca osservava ogni movimento. Ci rimasi male quando scoprii che non era Napoleone, ma un trisavolo, che aveva cacciato gli austriaci in una storia che non avevo ancora studiato. Il nonno si chiamava Valentino, come il divo del muto. Non era così bello, ma si dava un tono. Era stato un ufficiale medico della Prima guerra mondiale. Dal Friuli finì a Caporetto e poi a Crespino, proprio sul Po, dove Zeus aveva fulminato Fetonte mentre guidava i cavalli di Apollo. Sulla riva di quel fiume, Valentino incontrò Antonietta. “Ricorda che furlàn fa rima con vilàn” diceva la nonna, eppure la loro storia era andata a finire come in ogni romanzo d’appendice: si erano sposati ed erano nati mio padre e suo fratello. “Boia d’un paròn” bofonchiavano i figli dei contadini senza scarpe, mentre i due bimbi vestiti alla marinara volevano essere Lindbergh, sognavano la trasvolata atlantica e costruivano aeroplanini. Una sera di tanti anni prima, mi raccontarono, la nonna che non ne poteva più di non so cosa, prese uno di quei modellini, lo buttò per terra e lo schiacciò con i piedi: mio padre continuò a suonare il pianoforte, mentre il fratello spiava dalla serratura.
Ora Antonietta era una sorta di parallelepipedo con i capelli azzurrini. Indossava un abito grigio, largo, tipo grembiule. Aveva gli occhi piccoli, cerulei, liquidi, nascosti da occhiali con cerchi concentrici. Una trama di capillari rossi le disegnava la faccia e, forse perché era Natale, qualcuno doveva averle tagliato la barba perché, quando mi abbracciava, pungeva. Portava a tavola quei piatti chiusi dall’anno prima tra gli specchietti, la damina e il cicisbeo. Il brodo sapeva di muffa e dai bicchieri era meglio non bere. Per fortuna c’era il panettone. Quando poi mi davano il permesso di alzarmi, andavo a fare un giro. A sinistra c’era la camera da letto dove non si doveva mettere in disordine, a destra lo studio del nonno Valentino, dove non si poteva andare perché c’erano le medicine. Restava l’ingresso con quella stufa che mi piaceva tanto e quel casco collegato ad una specie di radio. Lo osservai tenendo le distanze, perché mi era stato detto di non toccare, e mi convinsi che quel marchingegno fosse troppo complicato per asciugare i capelli. Probabilmente era un’arma che i russi e gli americani usavano per la guerra che si facevano nello spazio, invece di pensare ai problemi della terra. Più tardi pensai che forse era stato usato per girare una scena di Metropolis, ma non mi risultava che i nonni conoscessero Fritz Lang. Ma qualche tempo dopo capii che quella macchina serviva per far uscire dalla testa non so quale malattia. Dicevano che dava la scossa, che mandava la corrente nel cervello e si guariva, ma non mi persuasero per niente.
Daniela Morandini