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    I ragazzi di San Nicola…

    DSCN1052 (3)Guardando, le terribili immagini di chi si aggrappa alle nostre frontiere… e l’enormità di questa folla che nulla e nessuno fermerà. Pensando alla storia minima di un piccolo gruppo di uomini, uguale a tanti altri che si affacciano qua e là nel nostro paese, e che da quella folla arriva…
    Parlo dei settantasette profughi ospitati nel Casale San Nicola, periferia della Roma Nord, fra la Storta e l’Olgiata, dove la borgata diventa zona residenziale. Mi sarebbe piaciuto raccontare “la storia minima”, di un piccolo gruppo di uomini che qui sta ricostruendo la propria vita. E invece…
    Entro il 12 marzo questi ragazzi, sopravissuti alle guerre, al terrorismo islamico, al deserto e al mare, devono andare via anche da qui. Il prefetto di Roma ha ordinato lo sgombero del Centro di Accoglienza, intimando alla cooperativa Isola Verde, che lo gestisce, di proporre entro quel termine “l’utilizzo di altri stabili”. Insomma, da qui se ne devono andare. La decisione, si legge nell’ordinanza, viene presa per “motivi ambientali”.
    Ma non fraintendete, non sono gli ospiti del centro a creare problemi “all’ambiente” intorno (nessun reato è a loro ascritto). A turbare l’ordine pubblico sono altri… certi italiani… gli stessi che nel luglio scorso hanno dato indecorosa prova di sé: un gruppetto di militanti dell’estrema destra ( Casa Pound) e alcuni cittadini che questi rifugiati proprio non li vogliono accanto, e hanno fatto un blocco stradale, incendiato cassonetti, lanciato pietre contro le forze dell’ordine e i profughi… e continuano evidentemente a rumoreggiare queste persone, anche se in questi mesi la rete che si è creata tra gli operatori della Cooperativa Isola Verde, le istituzioni locali, gruppi di cittadini, comitati… ha di fatto dato vita a un programma di accoglienza degno di un paese civile e così si sperava potesse continuare.
    Ero andata a trovarli, questi ragazzi. Tanto che aveva insistito, perché arrivassi fin lì, Daniela Morandini, che ogni giorno va al centro a insegnare loro l’italiano. Sarà l’età, che scioglie anche il cuore avvezzo a quasi tutto di un gatto randagio… ma che tenerezza, e che strazio anche, vedere quel gruppetto di giovani, felici di prendere appunti incerti fra quaderni e lavagne, attenti a non perdere un respiro, per imparare le parole della nuova terra…
    I loro nomi, le loro storie, me le racconta tutte Daniela. Modi, nato nel Mali dove, dal colpo di stato del 2012, si continua a sparare. E’ diventato amico di un elettricista che vive in zona e ha imparato cosa sia la corrente elettrica e cosa fare ogni volta che salta la luce. Anche Damboù viene dal Mali, dove sono solo le donne a pensare al cibo, ma qui è lui ad aiutare in cucina. Non era mai andato a scuola, ma qui è passato dall’analfabetismo alla posta elettronica. E poi c’è Wally, andato via a quattordici anni dalla Mauritania, dove c’è ancora la schiavitù. Ha impiegato anni per arrivare fin qua. Va a scuola, coltiva l’orto. Qualche settimana fa è stato operato ad un occhio, ma ha voluto tornare al Casale dall’ospedale da solo, con il trenino.
    Ancora. Abdirashid è di Mogadiscio e qui ha compiuto vent’anni. E’ uno dei due milioni di profughi della diaspora somala. Tre mesi fa non conosceva una parola della nostra lingua, ma nel suo paese era riuscito ad andare a scuola, nonostante gli attacchi terroristici di Al –Shabab. Ora studia dalla mattina alla sera, e questo è il suo primo compito in classe: “In Somalia abitavano tanti animali. Zebre, leoni, elefanti, giraffe. Però quando è cominciata la guerra tutti gli animali sono scappati in Kenya. Perché gli animali vogliono la pace, come le persone. Io spero che gli animali torneranno un’altra volta. Quando la Somalia sarà in pace”.
    Moustapha é di Casamance, Senegal, dove si vive fra le stragi di una guerra ignorata dall’Occidente. Sa fare il barbiere e scrive poesie d’amore per una ragazza lontana: “Stenditi sul letto e smetti di respirare .Vedi come ti manca l’aria? E’ così che mi manchi”.
    Delle amicizie nate con la gente dei dintorni ve ne racconto solo una. Quella di Ensa con Gabriele, che è un ragazzo di ventiquattro anni con un ritardo mentale, che non aveva mai avuto un amico, e un giorno incontra per strada Ensa, che è un ragazzo della sua età e viene dal Gambia (dove negli ultimi mesi sono ricominciate le esecuzioni e dove, denuncia l’Onu, la tortura viene praticata con scariche elettriche e soffocamento). “Sei un bel negro” gli dice Gabriele. E tutti e due scoppiano a ridere. Ora sono sempre insieme e per Gabriele è iniziata una nuova vita.
    Chi gli spiegherà ora perché perderà il suo primo, unico, amico? Che Ensa è “sfrattato”, perché “non può considerarsi ammissibile un dispiegamento continuo di forze dell’ordine, al fine di garantire il pacifico espletamento del servizio di accoglienza”. Insomma che sono i profughi a essere in pericolo, come era accaduto in luglio.
    Sembra un paradosso. Anzi, lo è.
    In molti si stanno mobilitando per chiedere di non distruggere quanto in questi mesi è stato costruito. Ho appuntato un lungo elenco di adesioni, che si srotolerebbe nella colonna di questo sito come un lenzuolo… con tutte le parole, le belle testimonianze, gli appelli della città solidale, che spiegano che “capitolare davanti a posizioni razziste e violente è un segnale allarmate per la città”. E’ una sconfitta per tutti.
    Ma bastano, mi ricorda Daniela, le parole di Brecht, che attraversano il tempo e tutto raccontano:
    “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”.
    Non bisognerebbe mai smettere di ripeterle…

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