Che ne facciamo delle estremità? delle eschatià dei nostri tempi… si chiede e ci chiede Paolo Rausa, a proposito de “La città che cura”. Ascoltate:
“La città che cura” se stessa è un programma che parte dall’unità sociale e immobiliare e si irradia come luce, come acqua che tutto coinvolge. Il contrario della concezione basata sul centro a cui tutti dovrebbero confluire, l’ospedale, ma che si perdono, strada facendo. Noi e loro. Il luogo che sorge indifferente al resto della città o del contado. E se non basta ne sorgono altri, privati. Aumenta l’offerta e i servizi ma sempre in una logica centripeta, tutti verso il centro della sanità come della città. Forse bisognerebbe ritornare alla persona, che vive in uno spazio e in una comunità con annessi e connessi. Che ne facciamo delle estremità? Eschatià le chiamavano i greci antichi, margini, periferie in senso moderno. Ora capiamo il significato di rammendo lanciato da Enzo Piano, architetto di Genova. Il rammendo è recupero e ritessitura: riprendere i fili dell’ordito e dare un volto nuovo al tessuto logorato. Fuori di metafora è la nostra vita in gioco. Non serve soltanto costruire nosocomi e abbellirli, far sentire in agio i malati. Questo è bello, ma non basta. Perché, chiediamoci, che c’entra la storia di un territorio, di un quartiere, di un singolo vissuto fuori con l’ospedale o con qualche altro centro clinico privato che non si chiede chi ha davanti? Guarda alla malattia come fatto fisico che riguarda i nostri corpi, ma la la nostra complessità resta fuori, la nostra storia fatta di conquiste, sconfitte, sogni, illusioni, solitudini… Ecco il senso riposto nella frase “la città che cura”, ovvero il prendersi cura del disagio e della malattia, ricostituire la comunità, riportare la serenità nella vita, intessere, rammendare, ri/costituire quel filo di Arianna che ha salvato Teseo, irriconoscente dopo. Gli esempi non mancano di buone pratiche. Se qualcosa ci ha insegnato la pandemia è che bisogna riscoprire i rapporti fra di noi, annullare le distanze geografiche ed economiche fra di noi, con/vivere come diceva don Tonino Bello. La convivialità delle differenze: far pace non vuol dire solo spezzare il pane e distribuirlo ma mangiarlo insieme, sedendosi all’unica tavola senza catalogare o discriminare l’altro/a, fratello e sorella in viaggio come noi verso la me” Paolo Rausa