dal numero di settembre di Voci di dentro (che invito a leggere tutto), il mio contributo…
Il corpo, dunque. Seguendo da anni vite prigioniere, il primo pensiero va sempre a quali contorsioni fisiche e spirituali comporta il costringere corpi in condizioni così innaturali come, tanto per cominciare, la limitazione dello spazio. E quando questa condizione ha il tempo infinito della pena dell’ergastolo… E quando, pena nella pena, lo spazio ancor più si restringe fino a condensarsi nel nulla di quella condizione, che non riesco a definire diversamente che non tortura, del 41bis.
Ma nulla può spiegare meglio delle parole di chi queste pene le subisce.
“Noi ergastolani prima diventiamo carcerati, poi il carcere. Ecco, non è un luogo comune quando si afferma che diventiamo arredamento del carcere, perché non potrò oppormi a lungo. Prima o poi sarò “il carcere” arrugginirò come il ferro, sarò umido e pieno di muffa come i muri, mi aprirò e mi chiuderò alla stessa ora e morirò ogni volta in un giorno diverso, fin quando esisterà l’ergastolo, fin quando resterà il mio corpo”. Questa è la prima testimonianza, raccolta anni fa, che tutto mi sembrò svelare su un sistema che rende le persone cose. Una rabbrividente costrizione del corpo che non può che presto trasmutare in una più profonda, totalizzante, costrizione psico-fisica.
E se questo è l’ergastolo di una carcerazione “normale”, immaginate quali deformazioni in regime di 41bis. A partire da quel corpo che, anche volendo e poi potendo, non riesci più a usare. Potrei raccontarvi di persona che, dopo dieci anni di quel regime, mi ha confidato di avere poi impiegato mesi e mesi prima di riuscire anche solo a sfiorare la mano persona cara. Eppure… “poterli toccare, accarezzare, stringerli, tenergli le mani, era per me come fare riserva d’ossigeno”, aveva raccontato altra persona ricordando i colloqui con i familiari che la distanza aveva reso rarissimi…
Corpi amputati, quando non corpi sottratti al sé.
“Immaginami dietro un blocco di cemento per quattro persone isolato ermeticamente nel fondo di un pozzo. In questo fondo cella e passeggio hanno in comune la finestra per cui il fazzoletto di cielo del tetto del passeggio si intravede dalla cella. In pratica non ho uno spazio orizzontale verso cui guardare come avviene quando ci si affaccia dai piani “alti”. Di fronte la cella ho la saletta. Cioè faccio un passo ed entro nella saletta (un contenitore profondo che prende luce da uno pseudo lanternino al soffitto), altri due passi ed entro nel passeggio. Chiuso ventidue ore al giorno, sottoposto ad un trattamento paranoico che moltiplica gratuitamente le afflizioni: l’acqua è gialla, e quella potabile la beve solo chi può acquistarla, il vitto è calibrato come da tabella Ministeriale e quindi la quantità è disperante, e si sazia chi può acquistarne biscotti, unico alimento al modello settantadue due… In un luogo privo di stimoli sensoriali in cui gli spazi sono claustrofobici le patologie proliferano, quelle mentali si amplificano e l’instabilità emotiva diviene il denominatore comune della vita psichica.
In questa realtà della mia salute rimane ben poco; vivo stati di panico continui. La pressione arteriosa è da infarto e non trovo rimedio farmacologico. Purtroppo, non riesco ad adattarmi alla struttura priva di finestra (ma anche i miei compagni non riescono a vivere serenamente). …; ora con quasi ventitré anni di carcere sopravvivo l’ineluttabilità della morte come unica speranza, e questo mi dà serenità.
La pace mi è restituita dalla fine di ogni sogno perché non ho nessun poetico luogo mentale che non sia stato crudelmente profanato. Questa è la mia forza”.
Questo scriveva appena arrivato, nel luglio del 2015, nel carcere di Bancali, a Sassari, Davide Emmanuello, ora al ventiseiesimo anno di 41 bis, la cui vicenda da anni cerco di seguire.
Le sue parole mi riportano a un libro di riflessione e riflessioni su ogni tipo di reclusione, Il bosco di Bistorco (edito anni fa da sensibili alle Foglie, a firma di Renato Curcio, Nicola Valentino e Stefano Petrelli)), che parte dalla convinzione che la forza di vivere abbia bisogno della “capacità del corpo di cavalcare nei territori degli stati modificati”, e quindi si immagina il prigioniero come persona che, oltre che nel luogo di reclusione, abbia anche posti dell’altrove dove il cuore lo porta.
Fra l’altro vi si legge che nelle chiese e nei monasteri cristiani l’icona, posta sempre in alto, guida lo sguardo verso l’Altissimo. E’ una tecnica d’induzione di trance centrata sulla torsione in alto degli occhi. La preghiera contemplativa che così si effettua, si spiega, “consente ai mistici di evadere dalla prigione del corpo, dalla prigione del mondo entrando in comunione con Dio”..
Non so quanto Emmanuello sia in comunione con Dio, che pure cita spesso, ma appunto ancora queste sue riflessioni:
“La bibbia racconta che Dio chiese a Caino: dov’è tuo fratello? Oggi se lo stesso Dio incontrasse un uomo che tiene prigioniero sepolto qui a Bancali un recluso, resterebbe di sasso a constatare che non è Caino, ma Abele a seppellire il proprio fratello… Ciò che infine dobbiamo ricordarci sempre è che la sofferenza non è altro che ciò che ciascuno fa del proprio dolore. Noi sappiamo fare di questo dolore la storia di uomini che trascendono dalla propria realtà dando senso a ciò che si oggettiva spiritualmente. Così il non vivere non vince la serenità che conquistiamo ogni giorno…”
Non sarà un mistico Emmanuello, ma come non pensare alla torsione dello sguardo verso l’alto, se l’unica luce che riceve il corpo è quella che “arriva da uno pseudo lanternino sul soffitto”, in spazi ridotti e claustrofobici, ordinati in senso verticale, cosicché allo sguardo è tolto ogni orizzonte… Pensando al tratto di cielo che “vedo alzandolo sguardo in verticale nello spazio del passeggio”, mi chiedo quanti e quali posti dell’altrove, per evadere dalla tremenda prigione che può diventare il corpo.