“L’Anima […], facendosi intermediaria di tutte le cose, possiede la facoltà di tutte le cose. E se è così, essa trapassa in tutte. Ma poiché è la vera connessione di tutte, quando migra in una non lascia l’altra, ma migra dall’una all’altra e sempre le conserva tutte sicché giustamente si può chiamare il centro della natura, l’intermediaria di tutte le cose, la catena del mondo, il volto del tutto, il nodo e la copula del mondo”.
Scintilla del pensiero di Marsilio Ficino, che Carlo Miccio sceglie a esergo del suo libro, che tutto informa: “Copula mundi” (edizioni Alphabeta Verlag), appunto. Che letteralmente significa “legame o unificazione”, e che qui è l’anima di un piccolo, marginalissimo mondo: Il Casolare, centro di accoglienza straordinario per profughi e richiedenti asilo, messo più o meno in piedi in un’ala di un vecchio, decaduto, motel dell’Appia, passato nel tempo da albergo di lusso, ad albergo ad ore…
Carlo Miccio sceglie il romanzo, sospeso fra testimonianza e finzione, per parlare di cose che ben conosce per esperienza personale (ha lavorato per il circuito d’accoglienza gestito dai comuni, lo Sprar, è stato responsabile di un centro di accoglienza straordinario, mediatore in commissione territoriale…), e su cui vale la pena di fermare il nostro sguardo, troppo spesso così distratto.
Intorno al Casolare, questo centro che è “raccordo di marginalità”, si muove il protagonista, Marco, che qui finisce dopo che la sua condanna per guida in stato d’ebrezza viene convertita in lavoro di pubblica utilità.
Il racconto si dipana fra i tanti incontri che possono avvenire in un centro d’accoglienza, che diventano confronto con le vite sospese di tanti. Cose, dunque, che Carlo Miccio ben conosce. E questa sua conoscenza si coglie da subito…
Nella risata di Farah, ragazza somala con lo hijab e le cuffie Sony, approdata nel nostro paese dopo il lungo tempo di un viaggio su un barcone, passato tenendo la mano ad una donna sconosciuta che delirando lentamente si è spenta. Nel rigore di Youssef, mediatore “sciamano capace di trasformare suoni arcani in significati comprensibili”. Nella tenera e sorprendente figura di Piermario, che “a vederlo sembra un po’ scemo, vestito con la maglia di Ibrahimovic che gli fascia la pancia, ma poi invece è lì che sa sempre come muoversi e fa la cosa giusta”… E nel racconto dei tanti incontri e scontri, che sono incontri e scontri anche culturali, sempre lontani dagli stereotipi e “dalle narrazioni tossiche” cui siamo purtroppo abituati.
L’impatto, per il protagonista, appena arrivato in quel posto “sospeso in una dimensione spazio-temporale tutta sua, a metà tra l’Africa e la campagna locale”, in quell’edificio avvolto da una patina di sporcizia e malaffare dove pure trova “un’atmosfera che sembrava comunque inondata di gentilezza, animata da persone sorridenti perlopiù vittime innocenti”, è davvero sconvolgente.
E presto impara, per quanto si può, come si può, quanto sia importante un’organizzazione che sappia essere al servizio dell’interesse comune, dove ogni vita ha un suo posto.
Come la vita nuova nuova di Maria, la bambina di Grace, ragazza della Nigeria, dove ci sono le bufale ma “non c’è mozzarella in Africa”. Maria che nasce dopo una rocambolesca corsa in ospedale, ed è dono intorno a cui tutti si ritrovano.
Racconto affollatissimo, fra l’altro sullo sfondo un omicidio, di donna bianca a opera di un presunto immigrato (e potete immaginare l’aria che intorno si respira…), e dove l’incontro e il confronto con Valerio, “paladino degli sfigati di tutto il mondo”, diventa per il protagonista un inaspettato fare i conti con una tragica vicenda che viene dal passato, e infine, con la propria vita.
Proprio in questi giorni, avevo appena chiuso il libro sull’ultima pagina e sul visino della piccola Maria, ho visto un bel documentario sulla natura, arrivato giusto giusto a scardinare una delle certezze più granitiche che abbiamo a proposito della legge del più forte che, guai a metterla in discussione, “è legge di natura” (e anche nostra quando ci conviene, trovandoci ad essere dalla parte del più forte).
Ebbene, non è esattamente così. Esplorando luoghi impervi e la vita a temperature impossibili, si scopre che quando manca tutto, per piante e animali, non vince il più forte ma chi collabora. Che è poi la morale del precedente libro di Miccio, lavoro che ne ha svelato tutta la capacità narrativa: “La trappola del fuorigioco”, che molto ruota intorno a Johan Cruijff, il fuoriclasse olandese che fu interprete del calcio totale, dove nessuno è ancorato a un ruolo rigido, ma dove il collettivo è tutto. Dove “ci si scambia di ruolo e ci si muove compatti a centrocampo tutti insieme. Il comunismo del calcio totale, ma anche quello dei tarantolati del Salento, dove l’intera comunità è consapevole che la malattia di uno è la malattia di tutti…”.
Anche lì, colpisce a tratti il linguaggio della tenerezza, lo stesso che si schiude, in Copula mundi, sulla “mano fantasma, probabilmente innamorata”, che con un baffo di vernice trasforma un’indicazione stradale in un abbraccio per la piccola Maria.
scritto per Ultimavoce.it