Dagli appunti di viaggio di una lontana puntatina in India. Appunti nati dall’urgenza di mettere nero su bianco le violente sensazioni provate. E che tutte ritrovo, intatte, a distanza di anni. Fotografie di tutto quello che le fotografie non sono riuscite a fissare. Di queste alcune più emozionanti di altre. Come l’incontro, ad Agra, con il Taj Mahal, pegno dello sconfinato amore dell’imperatore Shah Jahan per la sua regina, Mutmatz…
Trecento. Trecento. Addirittura trecento. Trecento le concubine del grande Akbar. L’imperatore moghul che amava travestirsi da donna per curiosare impertinente nel bazar riservato alle dame di corte. Trecento concubine tutte per lui…
Brillano allargandosi nello stupore gli occhi della guida che vuole trasmettere ai suoi clienti tutto l’entusiasmo e l’ammirazione che forse lui sinceramente ancora prova nei confronti degli eroi di quel grande passato. Si sbraccia dalle mura di arenaria rossa di Agra Fort, immensa reggia che domina la città di Agra, mentre invita ad affacciarsi sulla pianura ai nostri piedi, dove scorre tranquillo il fiume.
E le vedi. In trecento, danzare nel grande cortile dell’estate. In trecento, danzare nelle stanze dell’inverno. Affacciarsi sui giardini dai ricami del marmo, fra le balconate e gli intarsi di grate. Correre lungo i sottili corsi d’acqua di rose. Bisbigliare nella notte alla luce di mille candele. Trecento donne, in appartamenti da favola costruiti apposta per loro, e qualcuna nella prigione dorata, destinata a quelle che avessero mostrato di non considerare il più desiderabile degli onori essere chiamate ad accondiscendere ai desideri di un così grande sovrano.
Agra Fort è lo stupore delle prospettive degli archi, dei colonnati, l’ampiezza degli spazi, il volume e il susseguirsi delle sale, quelle delle udienze, quelle pubbliche e quelle private, il giardino delle viti, il palazzo degli specchi, i bagni reali. Dove si aggirano ancora le ombre di tante donne e di poche regine. Anzi, di una sola regina, il cui ricordo oscura quello di ogni altra donna: Mutmatz Mahal, la regina il cui re ha voluto ricordare con la costruzione del più incredibile pegno d’amore.
La loggia della torre di Musamman Burj guarda sul mausoleo nel quale è sepolta. Quasi commossa la guida narra la storia della triste fine dell’imperatore Shah Jahan: il tradimento di un figlio usurpatore e la lunga prigionia proprio lì, fra le mura ottagonali di quella torre; una prigionia durata sette lunghi anni, trascorsi, fino al momento della morte, guardando notte e giorno l’immenso mausoleo fatto costruire oltre il fiume in onore dell’amata moglie morta di parto: il Taj Mahal.
Costruzione inimmaginabile, il Taj Mahal: sembra sconfinare nel cielo e forse appartenere ad uno spazio che già non è più terra. Imperatore grandioso anche nell’amore, Shah Jahan. Quasi non si può che condividerne lo strazio, mentre la guida racconta della sua vista negli anni a poco a poco svanita e del gioco di specchi ideato per poter vedere fino all’ultimo istante di vita, ravvicinata in un frammento di vetro della parete, la tomba del suo unico immenso amore.
Imperatore di sentimenti estremi, Shah Jahan. Di crudeltà totali. Per un amore così grande ha voluto un monumento che non avesse eguali. Per un amore così grande, l’omaggio delle mani tagliate degli artigiani che l’avevano creato, perché non rivelassero il segreto di tanta bellezza.
Fra la serenità indifferente e sovrana degli spazi, ritorna il brulicare della folla della terra. Ritorna nell’immagine di un cane che attraversa il prato a sud della torre. Non è un cane. E’ uno scheletro di qualcosa che è stato un cane, a malapena coperto da un sottilissimo velo di pelle. Che pure cammina, fino a uscire dalla zona d’ombra per andarsi ad allungare, chiudendo gli occhi, sotto il sole.
Il Taj Mahal, dunque. Cartolina dell’India. Nell’era della riproducibilità tecnica delle immagini, monumento replicato all’infinito. Con il rischio di svanire, come ogni altra cosa, in svilenti molteplicità.
Ma vederlo comparire davanti agli occhi, così in marmo e cielo, è un’emozione completamente nuova.
La costruzione è gigantesca. Un solido squadrato, quasi un cubo, piantonato da quattro lunghe sottili torri, disegnato dentro perfette simmetrie. Mausoleo scolpito nel marmo. Ma è un marmo bianco, al quale la magia della luce sembra sottrarre materia. L’effetto è quello di una sfida superba alle leggi di gravità: la grande tomba sembra essere lì lì per sollevarsi da terra, pronta a volare leggera al primo richiamo. Anzi, sembra già far cenno a spostarsi nell’aria come sopra un tappeto volante, al quale è la costruzione stessa a imprimere il moto. Un’immensa casa di marmo senza peso. Mirabile architettura della leggerezza.
Il Taj Mahal appare diafano, trasparente, impalpabile. Da qualsiasi prospettiva lo si voglia guardare.
Visto dalla sponda di là dal fiume, dietro il velo di foschia e d’aria satura di gas, sembra lì lì per fuggire in un soffio, appena poggiato sulla trama di un tappeto di piume.
Forse è la luce, che il bianco del marmo assorbe tutta, a diventare forza di propulsione verso l’alto.
Oppure è il risultato della misteriosa proprietà di una materia sublime che nella costruzione dichiara la sua non appartenenza alla terra. Oppure effetto dell’amore infinito dell’imperatore, del dolore sconfinato della perdita, delle tante lacrime versate sulla pietra. Del miracolo del lavoro sapiente degli uomini che, intarsiandolo, hanno infuso trasparenza al marmo. Il segreto forse nel sangue delle loro dita mozzate.
Simbolo di infinito amore e di terribile potenza. Tutta la gente dell’India circonda d’affetto e stupore il Taj Mahal. Un turismo colorato di sari affolla ogni giorno il bianco mausoleo. In ammirato pellegrinaggio vengono da ogni angolo dell’India. Da soli, a gruppi, in famiglie nutrite, con gli abiti e i gioielli della festa. Ad aspettare pazienti nelle lunghe file che si formano all’ingresso per poi sciogliersi fra i giardini lungo i viali che portano all’ingresso della tomba. Per scattare la foto nel punto in cui il mausoleo si capovolge nell’acqua di una lunga vasca, e vederlo come attraverso il vetro di un antico dagherrotipo. Per entrare bisbigliando in lente, soffocanti e pressate file nel cuore del mausoleo. Immaginare il sonno della donna forse più amata del mondo nella trasparenza dell’incredibile ricamo di marmo e pietre colorate che ne protegge il sepolcro.
Nulla sottrae all’emozione e alla venerazione sapere che in realtà il corpo di Mutmatz Mahal è chiuso, accanto a quello del suo imperatore, più giù, in una stanza buia del seminterrato.