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    Buono come…?

    Le parole. Capita ci si comporti davvero male con le parole. Con una certa distratta cattiveria direi… Come quando con finta indifferenza le si depriva a poco a poco del loro significato. Si comincia col distorcerne giorno dopo giorno, appena appena un po’, il senso. E poi chissà dove si finisce. Una parola, ad esempio, semplice e assai comune, come l’aggettivo, “buono”. Tanto semplice e comune che sembra non valga la pena di stare lì a perdere tempo per cavillare sull’uso che accade se ne faccia. Eppure… Sarà solo una questione di scuola e di pagelle, ma fa un certo effetto sentire il tono mesto di un bambino mentre “ammette” che in una certa materia ha preso “solo” buono. Solo? Sì, mi si fa capire, un giudizio davvero buono è “distinto”. Il massimo sarebbe ottimo, ma questa è un’altra storia. Ma “buono” è buono, viene da ribattere. “No, non molto”, la risposta. “Ora è così”. E non si sa che rispondere. E non si riesce a capire. Il cervello incespica. Non si diceva, ad esempio, “buono come il pane”? E adesso quali parole, e con quali significati, potranno essere elaborate dalla testa di un bambino nel quale si insinua il dubbio che “buono” non è poi una cosa così buona. Se bambino buono, s’immagina, rischia di vergognarsi di esserlo. Già, e perché dargli torto… ci stiamo già pensando noi grandi a violentare la radice che sembrava così innocua di questa benedetta parola, storpiandola e contorcendola in quel “buonismo” che già puzza di cosa davvero tanto, tanto sbagliata, e da cui, per carità, cerchiamo di stare alla larga. Meglio un po’ di cattiveria. Sembra ultimamente aiuti a sentirsi nel giusto…

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