Casablanca. Al primo sguardo, è un sole caldo che brucia la pelle e l’arrivo su marciapiedi sconnessi di perferie del Sud. Sull’orizzonte di intrichi di strade, squarci di facciate decò del protettorato che fu. Che splendide si allargano, girato l’angolo, sui larghi viali della città moderna. Casablanca, è confusione di folla, e caos inquinato di automobili, che tolgono il fiato. Prima di arrivare alla confusione impossibile di medina. Scarpe, teli, abiti, frutta, verdura, animali, spezie, cianfrusaglie, una piramide di melograni, e fumo di carni e interiora ad arrostire. Vicoli bui e sguardi d’elemosina che non pronunciano parole. Tre dirham per un cono di carta di ceci bolliti e uno spruzzo di curcuma. E già la paura di perdersi. Via, via. Fuori dalle mura, di là dall’orologio che sovrasta la piazza. E Casablanca è esplosione di piazze e giardini. Dove inseguendo una palla giocano ragazzini. E lo spazio, aperto, è tutto loro, e il tempo del futuro sembra infinito, e infinito il loro spazio fra la terra e gli alberi. E viene un pensiero, di tristezza, per i nostri bambini, prigionieri, di case, di nevrosi di giochi bugiardi, di tempi adulti, che già non appartengono più loro. Prigionieri del tutto che hanno. Ma, appena arrivati, non c’è molto tempo per pensare. Più forte prende, ovunque, l’odore nuovo dove si mescolano, ed è difficile, per ora impossibile, distinguere, sentore di spezie, di cibi cucinati, aroma di caffè dei caffè, di menta dolciastra infusa nel tè, odore di gatto, di pani appena cotti e di dolci e di miele e di fritti… L’odore di una porta che si apre sull’Africa…