Appuntamento a martedì, a Sollicciano, al Gozzini, per la presentazione del libro di Giovanni Farina. Questo il testo dell’introduzione…
“Da qualche anno scambio con Giovanni Farina lettere. E a poco a poco ho conosciuto la sua storia. Ha iniziato, Giovanni, con qualche accenno alla sua condizione, le difficoltà, le durezze, le tappe di una vicenda giudiziaria, a tratti kafkiana, che toglie il respiro. Respiro che a singhiozzi torna, con le immagini di un mondo intimo che piano piano si svela. Piano piano, a partire da qualche cenno, da eco di ricordi, ansie di nostalgie, per poi tutto prorompere… Perché le lettere dal carcere molto presto escono dai binari della forma e della cortesia fra estranei. Si diventa in qualche modo subito intimi. Anche se mai c’è occasione d’incontrarsi. Chi scrive dal carcere non ha tempo e pensieri da perdere. I suoi, Giovanni Farina li appunta tutti. Tutti i pensieri e tutto il suo tempo, come nelle pagine di un diario lungo quanto i giorni della sua prigionia. Che corre parallelo a quello delle pagine fatte di udienze, di sentenze, di ricorsi, note, appelli, a affollare il percorso giudiziario che lo imbriglia.
Me li ha snocciolati nel tempo, Giovanni, i pensieri del suo diario. Pagine allegate alle lettere che mi ha inviato. Prima con cautela, un po’ alla volta, poi sempre un po’ più ‘osando’… e così mi sono trovata inondata da un mare di pagine, che alla fine mi ha chiesto in qualche modo di curare. E non è stato facile.
Non è facile per nessuno, credo, scegliere da una vita intera. Che è un po’ come affondare le mani nell’anima di persona altra… e decidere, in base a proprie sensazioni ed emozioni, quale racconto per una vita che non è la tua. E che tutta per Giovanni Farina si scioglie in cento e cento e cento pagine di pensieri, racconti, riflessioni, su di sé, sugli uomini, sulla natura, su Dio… sulle mura di un’infinita prigionia. Prose che si alternano a poesie, anche, perché molto si esprime Farina seguendo la musica, ora morbida, ora sincopata, di versi.
E leggendo e rileggendo, prose e poesie si sono come rapprese intorno a temi di un percorso nel tempo insieme fisico e dell’anima.
Giovanni Farina era pastore. La terra, gli animali, la natura, sono come un imprinting che nulla ha scalfito. Fanno da sfondo, anzi sono la sua vita fuori, ma penetrano anche le mura della vita dentro. Non solo nel ricordo e nei sogni, e non potrebbe essere diversamente… ma diventano metafore e rimandi continui al presente. Prigionieri anch’essi. Diventano ragni, sono le mosche imbrigliate in ragnatele, sono uccellini che abitano, anche loro, le mura del carcere, e della vita che vi è dentro diventano testimoni. Come nel racconto del passero, che dice: “… e mi sono accorto che dalla finestra quegli esseri non potevano far passare nemmeno un dito, perché era ostruita da grosse reti metalliche. Decisi allora di allevare i miei piccoli nello stesso nido, come tutti gli anni. Non potevo avere paura di quei prigionieri, guardiani della loro stessa ombra”.
Anche il cielo e la luna, che sono gli stessi di sempre, quelli della vita libera, sembrano non esserlo più, oggi prigionieri anch’essi. Se, viste attraverso le sbarre, “le stelle non fanno luce”.
Insieme alla natura un riferimento molto forte, leggerete, è il ricordo dei genitori. Gli insegnamenti del padre, gli eloquenti silenziosi gesti della madre. E quando, risfogliando le pagine di appunti, ho cercato tutti i brani che a loro si riferissero, mi sono accorta dei diversi registri linguistici che, istintivamente, emotivamente, Farina ha scelto per loro. Così che l’immagine del padre salta fuori forte dal linguaggio asciutto della prosa. Mentre la madre è soprattutto poesia, perché solo con la poesia forse è stato possibile trovare le parole per restituire il segreto della luce “del tuo bianco volto”. Omaggio commosso al padre e alla madre di un figlio che… “Quando ero giovane mi credevo un cavallo veloce. Col passare degli anni, a un certo punto mi sono sentito un somaro lento. Oggi sono una pecora sola che aspetta che gli aprano il recinto per andare al cimitero per vedere dove sono stati sotterrati, i propri genitori”.
E torna, forte, anche il tema dell’amore. Che, se la vita affettiva è ancora negata nelle nostre carceri e appena oggi sembrano aprirsi leggeri spiragli, è pena che si aggiunge a pena. In queste pagine la sua assenza, come il ricordo o le illusioni, sono, ancora, soprattutto poesia.
Versi, dunque, insieme alle riflessioni sulla condizione propria e degli uomini tutti, su quel Dio, che c’è e che sembra non esserci, sul senso della giustizia, sul potere degli uomini sugli uomini… frammenti che compongono la vita di un uomo che, dopo tanti anni in carcere, non vuole rassegnarsi, come dichiara, “a fare la parte del cattivo”. Per questo ce la vuole raccontare e consegnare, questa sua vita.
Scrive molti racconti anche, Giovanni Farina, apologhi, favole. E ognuno ha una morale. Ma meriteranno, immagino, una raccolta a parte. In queste pagine ne troverete uno solo, alla fine: “Il Corpo”. Scritto, come ricorda l’autore, mentre era in regime di 41bis e protestava per il trattamento che gli era riservato. Chiude il libro, per non dimenticare i lunghi anni che Giovanni Farina ha passato in quel regime, la cui disumanità dovrebbe farci interrogare su quale civiltà sia mai la nostra.
Oggi, la sua vicenda giudiziaria sembra stia per sciogliersi. Giovanni Farina non è più un ergastolano con “fine pena mai”. Me l’aveva annunciato la scorsa primavera mandandomi copia del deposito della sentenza del ricorso che da anni porta avanti, chiedendomi di farla conoscere. La Cassazione gli ha dato ragione. Ci sono voluti 10 anni, mi ha scritto, perché venisse riconosciuto un diritto.
Se tutto andrà avanti come infine dovrebbe andare, ci saranno per lui nuove libertà. In una delle sue ultime lettere si augura di poter essere presente alla presentazione del suo libro. E noi speriamo, guardandoci intorno, quel giorno, di incontrare i suoi occhi.
FdC