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    Ancora urla…

    Dopo aver letto “Urla a bassa voce…”, queste riflessioni, di Grazia, che volentieri accolgo…

    Si avverte una forza rabbiosa e al tempo stesso rassegnata già in quell’ossimoro così efficacemente espresso nel titolo, Urla a bassa voce. Tra le pagine, una pluralità di toni e di timbri, accusatori, ironici, cinici, vibranti d’orgoglio e di pentimento, di attese e di dissillusione. Tante le voci racchiuse in questo libro, come dentro a un coro polifonico bello, tragico e crudele, un coro urlante che fa rumore, che con impeto, abbattendo muri, rompendo serrature, scardinando barre, arriva alle nostre orecchie, alle nostre tranquille vite. Un libro che assorda le nostre coscienze e scuote la nostra indolenza. Smonta, pagina dopo pagina, ad uno ad uno, i pilastri di quella impalcatura che è la nostra indiscussa moralità, ritenuta erroneamente ferrea e inamovibile e tuttavia poggiante spesso sui perni cedevoli del pregiudizio. Non c’è vittimismo  o autocommiserazione, non c’è neppure  supplica. Il filo che tiene insieme le varie testimonianze è una tensione emotiva, un urgente bisogno di far sentire la propria voce al mondo, di far conoscere le proprie condizioni, di sentire accolto il proprio grido.(…) C’è il coraggio di raccontarsi e di raccontare il proprio dolore: il vivere, giorno dopo giorno, dentro a una cella, al limite di una civile e umana sopportazione, il senso d’abbandono, il pensiero angoscioso che la sola libertà, a cui si può aspirare, sia rappresentata dalla morte, e poi la separazione dal mondo e dagli affetti più cari, il cui ricordo e i rari contatti restano l’unico conforto che, come un alito, sostiene il fragile lume della speranza, sullo sfondo ineluttabilmente cupo della disperazione.

    Le righe scorrono via, a tratti lente, nei riferimenti burocratici e giuridici e a tratti veloci, nei resoconti più accorati e personali. È un viaggio dantesco, in un tempo immobile, senza andata né ritorno, nei gironi infernali del carcere ostativo. Qui i dannati-detenuti, senza nessuna concessione alle proprie colpe, alle scelte sbagliate, agli indelebili errori del passato, ai retaggi di una certa formazione sociale e culturale che pur persistono, ci parlano di sé; ci dicono lo sforzo messo in atto per mantenere integra la propria dignità di esseri umani, per non cancellarsi come uomini e per far sopravvivere quello slancio di umanità che in loro ancora palpita. Ma ci raccontano anche di quella minaccia insidiosa, sempre in agguato, che è il sentimento d’inutilità che scandisce la loro uguale vita, il riconoscersi reificati, il sentirsi un peso per sé  e per la società. O peggio, un nulla.

    Eppure qualsiasi uomo, nel corpo, nella mente e nell’animo, è in continuo divenire – Quanta letteratura in proposito! – Non lo si può condannare quindi a una condizione di  permanente staticità A nessuno, sia questi anche un criminale, deve essere negata l’occasione di rigenerarsi perché anche dalle esperienze più dure e drammatiche, dagli errori più imperdonabili si può rinascere, ci si può incamminare verso la via del cambiamento e del riscatto.

     Per concludere, un’ultima considerazione sul valore ormai assodato della scrittura, in quanto processo maieutico. La scrittura, come la lettura, porta a fare i conti con sé e la propria vita, aiuta a riflettere sul proprio passato a chiarire le proprie azioni e vicende, porta a credere nuovamente in se stessi. Ecco questo libro, pur nella sua spontaneità linguistica – che ne costituisce anche un pregio -,  è una dimostrazione di quanto l’istruzione e la cultura, laddove avvengono,  possano rappresentare un viatico per una consapevole trasformazione.

    grazia

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