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    A proposito di scrittori

    Fra le carte gli appunti da un articolo di David Grossman. Conservati fra i più preziosi. Perché si scrive? La domanda che forse uno scrittore sente rivolgersi con più frequenza. E’ fulminante la risposta di chi, come lui, ricorda, scrive vivendo in una realtà di tragedia che, chiudendo in una gabbia, impoverisce il linguaggio. Si scrive, dice, per spezzare gabbie. Peccato adesso non ritrovare l’intero articolo che ricordo bellissimo. Ma un ritaglio da un’altra riflessione dello scrittore israeliano, pubblicata la primavera scorsa su La Repubblica, non è da meno. Ecco.
    “Io scrivo, dice Grossman, e mi rendo conto di come un uso appropriato e preciso delle parole sia talvolta una sorta di medicina che cura una malattia. Uno strumento per purificare l’aria che respiro dalle prevaricazioni e dalle manipolazioni dei malfatttori della lingua, dai suoi vari stupratori. Io scrivo. Sento che la sensibilità e l’intimità che ho con la lingua, con i suoi diversi substrati, con l’erotismo, con l’umorismo e con l’anima che essa possiede, mi riportano a quello che ero, a me stesso, prima che questo “io” fosse ridotto al silenzio dal conflitto, dal governo, dall’esercito, dalla disperazione e dalla tragedia. Io scrivo. Mi libero da una delle vocazioni ambigue e caratteristiche dello stato di guerra in cui vivo- quella di essere un nemico, solo ed esclusivamente un nemico. Io scrivo e mi sforzo di non proteggere me stesso dalle sofferenze del nemico, dalle sue ragioni, dalla tragicità e dalla complessità della sua vita, dai suoi errori, dai suoi crimini. E nemmeno dalla consapevolezza di quello che io faccio a lui, né dai sorprendenti tratti di somiglianza che scopro tra lui e me. A un tratto non sono più condannato a una dicotomia totale, fasulla e soffocante: la scelta brutale fra “essere vittima o aggressore”.
    Parole da leggere e rileggere, oggi che la parola “boicottare” viene pronunciata a proposito di libri e di scrittori. E mi sembra sia lì, buona solo a costruire altre gabbie.

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