In attesa dell’appuntamento di sabato, un invito, ad ascoltare queste parole, una riflessione, molto bella, di Giampaolo Cassitta, che di storie di carcere e di carcerati ne conosce molte…( e se vi piace, vi suggerisco di andare a leggerne tante altre sulla sua pagina facebook o sul suo sito…)
“La prima volta che ho incontrato un uomo senza orizzonte era il 1985. Avevo ventisei anni, una barba scura e giovane, molte incertezze nelle tasche. Avevo però la consapevolezza che tutto potesse risolversi anche perché, per gli studi che avevo fatto, per le letture, per gli amori convulsi e adolescenziali non contemplavo l’eternità. Tutto era in movimento. A ventisei anni non si ha il concetto della fine e non hai, a dire il vero, un chiaro concetto della pena, dell’espiazione. Leggere, nella cartella biografica “fine pena mai” faceva un certo effetto. E’ come trovarsi in una galleria dove c’è solo un buco profondo che nessuno, ad un certo punto trivella più. Arrivi alla fine e ti trovi solo buio e una parete rocciosa davanti. E nella vita – almeno questo lo avevo capito – non si ritorna indietro. Fine pena mai è anche la constatazione forte dell’errore. E’ l’emozione del tribunale, è l’applauso scrosciante verso i giudici, è la forza della disperazione,(…) la consapevolezza di avere ottenuto giustizia. Lui è morto e tu sei un morto vivo. Per sempre. Fine pena mai è un concetto astratto anche perché il “mai” prima o poi arriva e dunque, come nella bellissima canzone di De Andrè, a quel punto, quando Michè morirà “ la cella gli devono aprir”. Certo. L’ergastolo è una concezione astratta anche nella realtà. Di fatto molti ergastolani possono, dopo aver espiato un certo numero di anni, ottenere dei permessi premio, la semilibertà e anche, dopo ventisette anni, la liberazione condizionale. Ne avevo ventisei. Significava mettere sul tavolo tutti i miei anni e ne mancava ancora uno affinché un uomo con il “fine pena mai” potesse provare ad aprire quella saracinesca, a trapanare e cercare la luce in quel budello dove era stato ficcato.
Quando ho incontrato quell’immortale – almeno per la giustizia – e mi ha stretto la mano, ho sentito pulsare il suo cuore in maniera lenta e arrotolata nel silenzio del momento. Ho sentito il suo viso provare a raccontare, a stratificare la sua vita, a tentare di spiegare, analizzare, resettare la realtà, senza riuscirci. Perché è difficile parlare di futuro all’interno di un cortile senza nessuna finestra e né cancello. Perché è difficile raccontare le proprie emozioni a chi ha davanti un nulla ed è, per decisione suprema, in nome del popolo italiano, una nullità. Lui, il signor “fine pena mai” mi racconta di aver ucciso e di aver sbagliato. Facile modellare le parole, che rimbalzano dentro questa stanza altissima del carcere di Fornelli. Ha reciso un’esistenza, ha fermato gli occhi e gli sguardi e i colori e il futuro di quell’uomo.
Lo Stato ha bloccato la sua esistenza senza concedergli nessun’altra possibilità. Lui è morto e tu non morirai mai. Resterai in carcere. Per sempre. Sembra quasi una condanna anche dopo la morte. Oltre la morte. E, a questo punto, anche oltre il diritto. Mi sono battuto, da sempre, per l’abolizione dell’ergastolo. Per coltivare la speranza della possibilità, del poter scommettere sulla probabilità di una nuova interlocuzione tra il reo e la sua comunità. Cosa si prova ad essere un “fine pena mai”? Certo, è la condanna a chi ha commesso orrendi delitti, a chi ha disintegrato il futuro delle proprie vittime e delle loro famiglie. L’uomo senza orizzonte risponde quasi con una parabola: “E’ come stare davanti al cappio, prima dell’esecuzione. Solo che quell’esecuzione viene, di ora in ora, rimandata”.
E’ una condizione adrenalinica quella di non coltivare speranze. Hai davanti la certezza dell’incertezza. La pena di morte, in fondo, risolve in maniera sicuramente deleteria e inumana il problema: estingue il colpevole ma, in ogni caso non elimina il dolore e il vuoto delle vittime. L’ergastolo lo rimanda. Tutti i giorni. Puoi anche studiare ed essere preparato, ma hai la terribile certezza che nessuno ti interrogherà. Ne quel giorno ne mai. Non avere un futuro rimanda, essenzialmente al concetto di “malattia”, di un malore però sconosciuto, di cui non si conosce l’esito. In letteratura rende benissimo la poesia ungarettiana “soldati”: Si sta come d’autunno sull’alberi le foglie. Sospesi, in attesa di una folata di vento che non arriva. Sapendo che quella condizione è immutabile e nessuno può modificare quella locuzione “mai”.
Perché mai è l’indefinito, un po’ come cercare il confine dell’universo, come provare a disegnare i contorni dell’anima e dire, quasi in maniera sconsolata, che non ci riusciremo mai. Non è pedagogicamente valido l’ergastolo. Non lo è perché non regala possibilità. Un bambino, un adolescente, un adulto deve poter contare su una soluzione possibile. La religione, per esempio, regala diverse soluzioni alla morte, all’indefinito per antonomasia. Tutte le religioni, anche il paganesimo, costruiscono speranze oltre la vita definendo, in qualche maniera quel “mai” terribile, creandogli spazi dove poter, in qualche modo, approdare con una certa tranquillità. Non è vero che resteremo per sempre sotto terra, prima o poi qualcuno ci farà resuscitare o ci potremmo reincarnare o potremmo vagare come spiriti nelle praterie.
La paura dell’uomo è l’infinito, quello che non puoi materializzare, non puoi quantificare, non puoi contare. Il “mai” è la condanna delle condanne ben sapendo però che ha comunque un limite, rappresentato dalla morte terrena. L’uomo senza orizzonte ha modi molto cauti. Si interroga ma non attende risposte. Chiede ma non è interessato all’ottenimento di qualcosa. Sa già di essere completamente “invisibile” al mondo che lo circonda. Non può, per assurdo, dire di aver sbagliato. Non se lo può permettere perché, in ogni caso, lui resterà per sempre in panchina. Nessun allenatore lo farà mai scaldare per entrare, anche per pochi minuti, in campo. Dovremmo chiederci, dovremmo interrogarci se tutto questo ha un senso. Lo faccio da oltre trent’anni ormai.
Mi sono passati davanti molti uomini senza orizzonti. Molti di loro terribilmente rassegnati, senza nessuna luce dentro gli occhi, senza sorrisi da quantificare. Relitti in balìa di un oceano solitario, gonfio di onde lunghe, di quelle che non distruggono la barca. Se la portano sulla loro schiuma, ad ondeggiare, senza farla naufragare del tutto. Qualcuno mi ha detto di non riuscire a continuare. Di non riuscire a dare un senso alle giornate. Un ragazzo di ventiquattro anni, uno che aveva ucciso otto persone per una guerra di camorra, mi disse che a Fornelli gli mancavano le ciliegie. Il sapore delle ciliegie. Nient’altro. Ho provato ad osservare in quale maledetto inferno fosse finito, se fosse lecito domandarselo. Mi sono chiesto se tenere in vita in stato “vegetale” queste persone avesse un senso e son tornato alle letture, alle teorie studiate per anni e tutte, davvero tutte evidenziavano l’importanza dell’analisi sociale: l’analisi legata alla cultura, al luogo, all’habitus che gli individui indossano in base ai paesi dove sono nati e cresciuti. E a quello che hanno assorbito.
L’ergastolo è una risposta di “pancia” alle esigenze di una società formata sul rispetto reciproco. E’ un errore giuridico ed è un orrore culturale. Non incide sulla diminuzione dei delitti così come è statisticamente provato da tempo, ma è la pena giusta nel momento enfatico richiesto dalla folla. E’ la condanna populista, non ragionata. Non è però una condanna contra legem. Esiste e ci sono le motivazioni per richiederlo e per comminarlo. Condannare all’ergastolo significa però, paradossalmente, non volersi occupare del caso, di quel delitto, di come e perché è maturato. E’ una dimostrazione palese di avere fallito. Come il carnefice che non ha saputo trovare il punto di contatto con la propria vita, anche lo Stato, la società tutta, decide di eliminare quell’uomo dal suo tessuto. Lo fa nella maniera peggiore. Cancellandogli l’orizzonte.
Quell’uomo che nel 1985 mi stringeva la mano è ancora buttato in qualche cella di questo paese. A contare i giorni e ricontarli, in un calendario gonfio di molti mesi ma con la consapevolezza terribile che dicembre è stato cancellato. La sua vita è costellata dai giorni che si muovono ma non costruiscono il tempo che passa. Quel tempo, come il fine pena non trascorre. Mai.
Giampaolo Cassitta