Studi di Estetica, rivista semestrale fondata da Luciano Anceschi (Clueb editore, Bologna) dedica gli ultimi due numeri a Luigi Gozzi. Daniela Morandini, sua amica e allieva, ne scrive così.
Gli ultimi due volumi di questa rivista così bella, quasi d’altri tempi, ricompongono e scompongono la poetica di Luigi Gozzi, uno dei drammaturghi più rigorosi del teatro di ricerca della fine del ‘900. A due anni dalla morte, la poetica di Gozzi scorre attraverso le sue regie e i suoi scritti: Jenet, Artaud e Jarry. E, sorpresa, attraverso una pièce inedita: Diderot. Ci si ritrova così, ancora, dentro al Teatro delle Moline, quella scatola nera con due entrate/uscite in fondo al palcoscenico, nel centro di Bologna. In questo spazio, Gozzi ha lavorato per più di trent’anni, sulle parole della commedia, sulla fisicità dell’attore, sulla trasmissione del sapere. Qui sono cresciute almeno due generazioni di persone. -Due destini gemellati- dice di lui Renato Barilli raccontando di un viaggio fatto insieme nella Parigi esistenzialista degli anni ’50. Ricorda di quando, ancora ragazzi, incontrarono quel “gran pescatore di uomini” che era Luciano Anceschi. Ripercorre l’esperienza del Gruppo 63, che tanto ha dato alla sperimentazione della forma.
Destini paralleli, quelli di Gozzi e di Barilli, uno già legato al teatro, l’altro alla pittura e alla critica d’arte. Da una parte Jarry, dall’altra Dubuffet. Più tardi, Luigi Gozzi, giovane professore, fonda la sua compagnia: il Teatro Nuova Edizione. Inizia così a scarnificare quel delicato passaggio che va dalla scrittura drammaturgica a quella scenica. Insiste sul lavoro dell’attore, perché – alla maniera di Artaud- il teatro è quel luogo dove nessun gesto può essere ripetuto due volte. Marinella Manicardi, sua compagna nella vita e sulla scena, ricorda il primo periodo del loro teatro, come il piacere fisico della parola che si fa azione. “A noi attori – scrive la Manicardi- Luigi chiedeva una prestanza e agilità fisica notevoli, tensione e controllo, forza danzante dei corpi e delle voci, e soprattutto gioco, serissimo, come lo fanno i bambini, che sanno di poterlo abbandonare in qualsiasi momento per cominciarne un altro, senza apparente logica di continuità”.
La scrittura di Gozzi ricerca schemi drammaturgici nuovi. Vanno in scena La Calandria, Il malato immaginario, Otello! Tutti e tre frantumano la sintassi senza perdere un rigoroso ordine narrativo. Dice Gozzi ripensando a quegli spettacoli in Trent’anni dopo il Teatro delle Moline: “Fare teatro voleva dire non solo mettere in scena, ma inventare, trovare anche il contenuto, o storia, o fabula, e anche scrittura, che diviene anch’essa, è anch’essa, elemento sostanziale dello spettacolo”. Parallelamente, il conflitto fra attore e spettatore si fa sempre più forte: Freud e il caso Dora, La doppia vita di Anna O, Io, Pierre Rivière. Il rapporto fra scena e platea, tra interprete/i e personaggio/i, è fatto sempre più di scontri e di silenzi. “Con la sua morte- scrive la Manicardi- quello spazio, quel silenzio, è diventato enorme, a volte intollerabile, come non avrei immaginato. Ma non stiamo parlando di questo”.
Daniela Morandini