Tornando, dunque, dall’incontro con Giuseppina. Giuseppina donna del Sud, portata al teatro Vascello, a Roma, da Pierluigi Tortora. Che entra in scena in silenzio e in silenzio siede al centro del palco. Ma prima, ancora, arriva la sua ombra sbieca, sul fondo, a sinistra. Un profilo appena suggerito dal fazzoletto annodato al collo, come usava una volta, per certe donne di un certo Sud, a una certa età, e da qualche parte si usa ancora… Un lungo attimo di silenzio, come per prendere il respiro, prima di tuffarsi nel racconto. E il miracolo si compie, perché, anche se si scioglie il nodo, e il fazzoletto scivola sulle spalle, anche se a dare voce e pensieri a Giuseppina è lui, sul palco già subito è solo lei. Giuseppina, che è nata, vissuta, invecchiata, nel cuore di Caserta, nel cuore di quella che era, così ci hanno insegnato a scuola, Terra di Lavoro. Che sgrana un rosario di nomi, i nomi della gente che ha accompagnato le età della sua vita lunga quasi quanto un secolo. Che ora racconta, così, semplicemente, come sanno, o sapevano raccontare, le nonne quando i più piccoli chiedevano. E bastava una sedia, e intorno, la voglia di ascoltare chi tiene che contare, così, semplicemente, perché questo è il fatto, bello e pulito.
Certo, tiene che contare, Giuseppina, che ha attraversato il secolo, che ha visto la guerra. Che ha visto, anzi, tante guerre, quella della Storia con la S maiuscola, e le sue personali, piccole e grandi guerre, anche loro, qua e là intrise di sangue. Sullo sfondo appaiono per un attimo i giardini della Reggia, la Reggia di Caserta dove si andava e si va ancora a passeggiare per le feste, e per noi che da quella città veniamo è il ricordo dei prati e degli alberi fra i quali capitava di andare a nascondersi, al tempo della scuola, e dove a volte piacerebbe andare a nascondersi ancora. Ma questa è un’altra storia… Al centro, della vita di Giuseppina, il suo uomo. Storia di un amore che fa ridere e piangere, se lei ancora sorride di lui che ha paura di passare il mare, se una sola volta, una volta sola in tutti gli anni insieme, le ha detto “sei la mia vita” e questo pure ancora la riempie di piacere. Come riempie lei e noi di tenerezza il ricordo di una zeppola, da dividere in due a San Giuseppe. Cosa che solo chi sa qual è il sapore delle zeppole vere, quelle fritte e con l’amarena al centro, può capire.
Al centro della vita privata di Giuseppina, tutti i suoi tanti figli. Quelli vivi e quelli morti, e chissà come si fa a sopravvivere alla morte di quelli andati via… Ma lei è qui, ancora a raccontare, con la forza delle sue parole. Ora pacate, come se la vita fosse cosa già lontana, ora dolci come sanno essere dolci i vecchi che ricordano cose antiche come le stessero ancora con le mani carezzando. Ora che diventano un urlo, che chissà da dove viene fuori e neppure lei riconosce, davanti al corpo morto del figlioletto, ucciso, sul Ponte di Napoli, al tempo della guerra. Lacerato mentre si avvicina, per giocare, ad un ordigno. Creatura morta, racconta, perché faceva la creatura, e le creature, si sa, con tutto, anche nei momenti peggiori sanno giocare… Un racconto, quello di questa donna del Sud, come un lungo, ininterrotto respiro, perché così forse è proprio la vita, quando ci si ferma a guardarla. Un respiro lungo quanto il breve tempo di un monologo.
E questa Giuseppina, che ancora conosce la magia del racconto, è il regalo che ci ha fatto Tortora. Lo stupore più grande rimangono il suo corpo e la sua voce, per sessanta minuti dissolti nell’identità femmina di una donna, delle nostre terra, piena di tutta la storia del secolo passato.
Ancora due giorni a Roma, al Teatro Vascello, Giuseppina, una donna del Sud, di Pierluigi Tortora e Matteo De Simone.