(…) Notai un’apertura nella recinzione che era stata messa intorno alle case e la varcai. Attraversai la facciata di un edificio che doveva aver contato almeno due secoli. Su di me lo stesso cielo azzurro. Non c’era traccia di soffitto, come se l’ultmo piano fosse stato tranciato di netto dal colpo di un’enorme sciabola. In alto, sulla mia testa, i bordi sfrangiati di un ballatoio al quale portava una larga scala di pietra. La scala continuava ancora con qualche gradino oltre il piano del ballatoio, per poi troncarsi mezz’aria. Di tutta la pavimentazione erano rimaste solo tracce di mattoni crepati. Unico segno di una vita lontana, il corpo di una vecchia stufa di ghisa, nell’angolo che avevo di fronte. Poi solo pietre. Pietre e polvere. Tanta polvere d accecare l’aria tutt’intorno. Feci un giro su me stesso, puntai l’occhio dentro il mirino e partì l’intero caricatore. Sulla scarica degli scatti l’ombra di una grossa lucertola si affacciò da un mattone. Il rettile sgambettò fino al davnzale del finestrone che si apriva alla mia destra. Mi lanciò un’occhiata, infastidito, prima di immergersi nell’esterno. Nessun’altra traccia di respiro. Solo pietre, e polvere, e qualche stelo di erba disidratata. In alto, sempre lo stesso cielo prepotentemente azzurro. Cominciava a fare decisamente caldo. La temperatura mi sembrò molto più alta di quella che avevo lasciato fuori del recinto. Avevo la sensazione di muovermi in uno spazio e un tempo immobilizzati. Come se qualcuno avesse poggiato su quelle case una grande campana di vetro. Pensai al gioco di un altro dio. Mi chiesi quanti ne avesse la città. E se erano buone o cattive tutte quelle divinità scese da chissà quale Olimpo per giocare con questa terra. Per deformare prospettive e immobilizzarle in fette di passato. Mi sentii in trappola. Il caldo era insopportabile. (…)
da Maritè, un brano d’estate…