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    Come Cristo in croce

    Certo lo sapevo, lo so anch’io che, anche se i manicomi non ci sono più, esiste ancora la contenzione. Che i “matti a volte vanno legati”, e che accade anche nelle case di cura, in quelle di riposo, che gli anziani, si sa, a volte “per il loro bene”, negli ospedali, anche… e sempre strugge, e sempre mi chiedo perché… Ma enormi sono stati lo stupore, la rabbia, la confusione che mi hanno assalito vedendo in un letto d’ospedale, con le braccia allargate, i polsi legati alle sponde del letto, che “se no si strappa il catetere”…, un’amica ricoverata per un improvviso malore, che aveva forse la sola “colpa” di essere anziana e di avere insistito per tornare a casa… e ti chiedi che fare, se le articolazioni del potere dell’uomo sull’uomo possono vestire anche un camice bianco che convince i parenti che “è per il suo bene” e ti spiega a mezza bocca: “se qualcuno (?!) rimane vicino a lei, la può anche slegare”. La mia amica… che quando mi sono avvicinata al suo viso mi sussurra “ma l’avresti mai detto che mi succedeva una cosa del genere? Non rimane che morire…”. Con sguardo che ti si aggrappa all’anima, e dentro di te una voce urla che proprio non va…


    Lo stesso urlo soffocato, contro questo sentore di morte, morte dell’uomo, ho sentito attraversare le pagine di “Come Cristo in croce. Storie, dialoghi, testimonianze sulla contenzione”, l’ultimo, densissimo lavoro di Antonio Esposito (ed. Sensibili alle foglie”). Attraversare tanto dolore non è facile, ma ci aiuta benissimo Antonio Esposito, che in tanto dolore anche per noi è entrato. Un racconto serrato fatto di incontri e confronti, con tutto l’universo che gira intorno alla contenzione: uomini, donne, medici, infermieri, avvocati, attivisti dei diritti umani, familiari…
    E subito ci fa capire cos’è, cosa sa essere la contenzione, con le storie di chi ne è morto. A partire dalla feroce vicenda di Wissem Ben Abdel Latif, il giovane tunisino morto, dopo un percorso di degradazione e reificazione che molto dice del nostro rapporto con chi viene di là dal mare, legato a un letto di contenzione nel Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura del san Camillo, a Roma. Come Francesco Mastrogiovanni, ucciso da un’assurda meccanica indifferenza, nel reparto di Diagnosi e Cura dell’ospedale di Vallo della Lucania, dopo una contenzione, seguita a un TSO, durata più di 87 (ottantasette) ore. E poi Elena Casetto, la diciannovenne bruciata viva nell’incendio da lei provocato, legata al suo letto dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. E poi ancora Bruno, affetto da picacismo, che significa mangiare cose, oggetti non commestibili, che morto non è, ma vive una terribile non vita con le mani legate e una grata di ferro sul volto…
    E poi ci sono le testimonianze di chi di contenzione proprio non è morto, ma porta nel fisico e nell’anima le cicatrici sempre aperte di ferite che mai guariranno. Perché la contenzione “è come uno stupro”, e provate a immedesimarvi nel racconto di Alice Banfi: “.. continuavo a rivedere immagini, a risentire questa pressione sul torace, a rivivere quella sensazione di essere bloccata nel letto. Con quei pensieri assurdi per cui una persona avrebbe bisogno di essere confortata, di poter parlare, di avere qualcuno che dice: guarda non sei stata rapita, sei qua, sei ricoverata. Invece sei sola, legata a un letto, che deliri”. Alice, che raccontando del suo percorso di ospedalizzazione e istituzionalizzazione… “quando entro in reparto, gran parte della mia umanità la lascio fuori per mia sopravvivenza”.

    Pagine dolorose, a tratti fa fatica andare avanti, ma pure non ci si può fermare. E d’altra parte se un libro non è quel “colpo d’ascia sul lago salato della nostra anima” che Kafka ci ha insegnato dover essere…
    Bisogna andare avanti, fare questo viaggio, e lasciamocelo assestare quel colpo, per svegliarci dal nostro torpore.
    Allora andiamo avanti. Scoprendo quali e quanti sono i luoghi dove ritroviamo pratiche che rimandano a quello che era un tempo il manicomio, quanto ci stiamo allontanando da tutto quello che Basaglia ci ha insegnato a proposito della cura che mette al centro l’individuo, persona che ha bisogni complessi, che punta sui servizi, che pensa a persone da curare in luoghi liberi, mentre prende piede la psichiatria clinica, del paradigma biomedico, la psichiatria, come si denuncia, “del posto letto”…
    Andiamo avanti, tenendo dunque ben presente che i nodi della contenzione, come si spiega, “non sono stretti solo in ambito psichiatrico” anche se “è proprio nella specificità della psichiatria, nella sua ambiguità irrisolta tra sapere medico e disciplina di normalizzazione con un mandato di custodia e controllo, che si evidenziano gli elementi costitutivi di questa pratica, a partire dalle retoriche giustificative”. E’ per il suo bene…

    Eppure, come da più parti pronunciato, la contenzione non è un atto terapeutico. Un provvedimento estremo e che dovrebbe essere limitato, nei tempi e nei modi, seguendo linee guida che pure esistono, ma che spesso sembrano giustificarla, la contenzione, anziché porvi un argine. Ed è contenzione meccanica, farmacologica e ambientale che tutte si sommano in grovigli di disumanità. E si moltiplicano le aree di diritti sospesi, in una sorta di manicomio diffuso, mentre pure si parla di “arte del legare”, che già il suono di queste tre paroline dà brividi…

    Come Cristo in croce. Un viaggio da fare, innanzitutto, perché parla di dolore che tutto ci appartiene, anche se lo vogliamo ben confinato in recinti altri, anzi anche proprio perché così vogliamo, non accogliendo quello che pure è in gran parte prodotto della nostra società, abbarbicati come siamo a una certa distorta idea di “sicurezza” che ci stanno da un po’ inculcando. Esattamente come avviene per le persone che chiudiamo nei Cpr, luoghi che producono malattia, o nelle nostre belle carceri… e i rimandi col mondo del carcere non sono pochi, dove se anche le persone “normali” diventano cose, dove l’uso di psicofarmaci è impressionante, pure si affollano i reparti destinati a chi ha problemi di salute mentale, e che sappiamo da tutt’altra parte dovrebbero stare.

    Molti i nodi, molte le tematiche che il lavoro di Esposito affronta. Scelgo, arbitrariamente come lo è qualsiasi scelta, alcune delle parole che ho appuntato, affondando nelle immagini che scorrono davanti agli occhi leggendo: ascolto, potere, tempo, pianto.
    Ascolto. Perché la mancanza d’ascolto sembra caratterizzare tutta la sanità. Lo sottolinea anche Yasmin Accardo, della campagna LasciateCIEntrare, parlando della vicenda di Wissem, che nel tempo della sua straziante vicenda, non ha avuto modo di esprimere il suo diritto di richiedente protezione internazionale, ed è morto legato a un letto senza saperne il perché.
    Eppure, innanzitutto d’ascolto e non di legacci avrebbe bisogno chiunque attraversi momenti bui. Di capacità di stare accanto, accoglienti, a tanto dolore…
    Potere. Perché è di potere su corpi che si tratta, quando parliamo di contenzione. Ma, si ricorda con Borgna, “non si parla mai della violenza della psichiatria, solo della violenza di chi sta male”. Perché è anche abuso di potere, quando ad esempio un TSO diventa, illegittimamente, misura di polizia, quando TSO diventa automaticamente contenzione, come la tragedia di Mastrogiovanni racconta. Dove, sottratte le parole della relazione “si definisce un campo di forze diseguali nel quale anche gli operatori finiscono con l’essere vittime di processi di spoliazione, perché le regole sono stabilite da un’economia di diritti sospesi”. Legare abbassa i costi del personale. E pure, di fronte a tanta violenza, c’è da chiedersi quali durezze, quale indifferenza bisogna maturare per non sentire, per non vedere, e quanto bruci l’anima il mestiere del legare corpi…
    Ci vuole meno tempo, è più semplice legare che assistere, legare e lasciare lì. Come racconta la storia di Mastrogiovanni. Come è storia di tante persone istituzionalizzate, persone con disabilità, minori anche, vecchi, persone detenute, tutti chiusi dentro luoghi che a tratti denunce svelano aver riprodotto l’atmosfera del manicomio. E allora ce ne scandalizziamo.
    Tempo, dunque. Perché se c’è il tempo azzerato ed eterno, buio e pauroso, di chi subisce la contenzione, c’è il tempo che richiede invece la cura, l’ascolto, il confronto. E c’è un luogo, nel quale Esposito ci porta, che compare a un tratto come lo scenario di una favola. Ma favola non è, perché non contenere è possibile, come nello SPDC di Ravenna. Dove da anni non si contiene, e dove lavora un’equipe che va tutta nella stessa direzione. Dove gli ambienti sono luminosi e aperti, dove c’è un giardino dove respirare aria aperta, dove le persone non vengono giudicate ma accolte… dove la cura è personalizzata e nasce dall’ascolto, dove tutto è relazione e tutto parla del tempo che c’è voluto per arrivare a questo, dell’impegno, del dolore da condividere anche, quando ogni volta è una scelta. Dove si dimostra che il non contenere, questo sì, è terapeutico. Qui nascono le altre due parole che ho appuntato.
    Carezza, che sa d’abbraccio, “che rende sopportabile le ferite”. E pianto. Ho quasi pianto anch’io leggendo del pianto degli operatori il giorno che, in un percorso particolarmente complesso, si sono resi conto che anche loro stavano legando… “Ma oggi sappiamo che il male era nel rendere quella persona un Cristo in croce”.

    Ci legavano come Cristo in croce”. Sono parole di Antonia Bernardini, la cui vicenda è stata ricostruita qualche anno fa da Antonio Esposito insieme a Stefano dell’Aquila in “Storia di Antonia, viaggio al termine del manicomio”, e ancora qui viene ricordata. Viaggio in un incubo, se da un piccolo diverbio davanti ad una biglietteria, per Antonia, dopo una denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale, in un precipitare che si fa fatica a credere, si aprono le porte del carcere e poi del manicomio, e poi del manicomio criminale di Pozzuoli, dove, dopo violenze e torture, Antonia muore carbonizzata nel letto dove era contenuta. Storia degli anni Settanta. Oggi ad Antonia, è stata dedicata una piazza a Napoli. Per non dimenticare. Tanto se ne parlò allora, e anche se le condanne inflitte al direttore del manicomio, al suo vice, a una suora e a tre vigilatrici che lì lavoravano, verranno ribaltate in Appello e il ricorso in Cassazione considerato inammissibile, l’indignazione che la vicenda sollevò portò alla chiusura del manicomio criminale.

    Ecco, aggiungo un’altra parola al mio piccolo elenco. Indifferenza.
    L’atroce morte di Antonia sollevò allora un grande dibattito nazionale, politico ed etico. A fronte dell’indifferenza sostanziale di oggi… Certo. Degli episodi più gravi un po’ se ne è parlato, ci si è anche scandalizzati, un po’, ma poi? Le amare parole di Samuele Ciambriello, garante delle persone private della libertà della Campania: “Quante prigioni ci sono, ma la prigione più grande, purtroppo, per ognuno di noi, è l’indifferenza. L’indifferenza è un proiettile silenzioso che uccide lentamente”.

    Chiudo con le parole di Antonio Esposito: “Se però cerchiamo l’origine del potere di intervento sul corpo del folle attribuito ai medici psichiatrici, dobbiamo tornare a quel mandato affidato, a fine Settecento, alla psichiatria alienista chiedendoci al contempo, a fronte anche del permanere di un fascino sempre meno indiscreto del manicomio, e soprattutto di forme sempre più evidenti di internamento, quanto di quello stesso mandato sia ancora tacitamente conservato”.

    Guardandoci intorno, guardandoci dentro… pensando all’amica trovata legata a un letto d’ospedale. Ci siamo riviste, dopo, ancora scambiamo parole e pensieri, ma mai, proprio mai s’è accennato a quei suoi tremendi giorni. Che so rimangono impronunciabile ferita dentro di lei.

    scritto per il numero di dicembre di Voci di dentro ..”Il cielo sopra Gaza”

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