“Davanti al primo cancello non riuscivo a entrare. Mi ha preso come una paralisi. Certo, sapevo che sarebbe stato emozionante, ma non mi aspettavo quel blocco! Ero proprio paralizzata…”.
E mentre racconta sembra ancora riviverla tutta quella emozione, Bianca, giovane attrice della compagnia teatrale “Le Donne del Muro Alto”, che alla vigilia dell’8 marzo ha varcato i cancelli del carcere di Latina.
“Le Donne del Muro Alto”… compagnia messa in piedi dieci anni fa, a Rebibbia, dalla regista Francesca Tricarico, con attrici ex detenute e ammesse alle misure alternative. E per festeggiare questo decennio sono “tornate in carcere” per la prima volta come persone libere per presentare il loro nuovo spettacolo. Olympe. Tratto dal romanzo di Maria Rosa Cutrufelli, La donna che visse per un sogno racconta gli ultimi mesi di vita di Olympe de Gouges, intellettuale, drammaturga e attivista impegnata nella difesa dei diritti civili nell’epoca della Rivoluzione francese, che pagherà il suo impegno politico con il carcere e, infine, con la vita.
Bianca, Bruna, Betti, Daniela, e Chiara, che (sorpresa!) è giovane studentessa di scienza dell’educazione, che ha scelto di far parte del gruppo come “percorso di formazione umana profonda. Per avere la possibilità di riflettere e vivere cose che non accadono tutti i giorni sotto gli occhi di tutti…”. E guardandola, e ascoltandola, mentre spiega quanto sente di dover regalare parole d’autenticità, penso che se ci fossero più persone col bel suo sentire… forse un po’ più umano sarebbe anche il mondo…
Incontro Bianca, Bruna e Chiara, con la loro regista, durante una pausa per le prove per il prossimo appuntamento… e ancora tutte palpitano d’emozione. Non deve essere stato facile, mi chiedo e chiedo, ritornare, anche se in nuova veste, in un luogo che è stato dolore di prigionia. Ne era ben consapevole anche Francesca che, confida, per la prima volta ha detto loro: “Se è troppo forte per voi non la facciamo, questa rappresentazione. Ma l’abbiamo fatta”.
E sono ben forti le Donne del Muro Alto.
“Ritornare in carcere da libera? È stato un effetto surreale”, spiega Bruna. Come vivere un flash back. Il cancello, la porta d’ingresso, l’aria che manca quando sono rimasta chiusa fra due cancelli. Ogni piccola cosa ti ricorda tutto, tutto quello che, da detenuta, hai visto e vissuto. Ho avuto bisogno di tre giorni poi per riprendermi, ma forse ne avevo bisogno. Avevo una grande curiosità di provare a ritornare. Sono stata male, ma dovevo farlo e lo rifarò. Il coinvolgimento emotivo è enorme, per noi che abbiamo vissuto l’esperienza del carcere…ma non vedo l’ora di ritornare”.
Nella Casa circondariale di Latina ci sono stati due spettacoli. La mattina per i detenuti della sezione maschile, il pomeriggio per le donne dell’Alta sicurezza, dove un altro tuffo al cuore per Bruna, quando ha visto entrare due donne mano nella mano, e… “ho pensato a Medea, lo spettacolo dove entravo accompagnata per mano da una compagna… io l’ho vissuta questa scena…”
Già. Momenti di grande struggimento, forse difficile da capire per chi non ha avuto l’esperienza del carcere. Così gli uomini della sezione maschile, pubblico del primo spettacolo, sono nelle parole di Bianca “quei ragazzi” che… “li avrei voluti abbracciare uno ad uno, metterli tutti in tasca e portarli a casa”. E quanto grandi avrebbe voluto fossero le sue tasche, per accoglierli tutti. Ancora: “E il pomeriggio, l’emozione di recitare per le donne in Alta Sicurezza, proprio la vigilia dell’8 marzo, leggere il dolore sulla loro pelle…”. Dolore, che pensi sia stato anche il suo.
Bianca, col suo italiano bello e garbato che, brasiliana, assicura “mi ci sono messa d’impegno ad impararlo”. E c’è da credere a tutto l’impegno che ha messo nelle cose. Pensate che, entrata nella compagnia quando era detenuta a Rebibbia, cinque anni fa, dopo gli anni bui, ora ha un buon lavoro (in un bar di piazza Navona e ha appena preso diploma da sommelier!), ma continua a far parte della compagnia, lei che l’attrice avrebbe davvero voluto fare, spiega, per dare e prendere emozione. E ancora sembra voler avvolgere di tenerezza le persone che ha incontrato là dentro, quasi a proteggerle con quel suo carezzevole “ragazzi”, che solo chi sa della condizione di chi è dentro sa così pronunciare. Ancora commossa per l’attenzione di quei “ragazzi”, anche loro rapiti e coinvolti, immagino bene, nel sogno di libertà di Olympe.
Lo spettacolo era già stato messo in scena una prima volta a Rebibbia cinque anni fa. “Uno spettacolo ricco di riflessioni anche sulla nostra Costituzione, sui nostri doveri e diritti, oggi come ieri…”. Questa, spiega Francesca Tricarico, è l’ennesima versione. “Perché ogni volta si rielabora, si cambia, si va avanti, anche se questo è il testo in cui abbiamo avuto meno bisogno di inserire altro, un testo attualissimo, con quel carcere così tristemente attuale… Solo abbiamo trasformato i monologhi del testo in dialoghi, e introdotto il tema della relazione delle donne in carcere, cosa che nel libro non c’è”. Cosa, la relazione delle donne in carcere, cui da sempre Francesca rivolge il suo sguardo attento, pensando all’universo femminile, relativamente piccolo in carcere, che “paga” il dover vivere in un sistema tutto pensato al maschile. Soprattutto dopo aver compreso come queste donne subiscano uno stigma maggiore rispetto agli uomini. “Perché ancora oggi in Italia essere una donna che ha commesso un reato è una colpa più grande di quella di un uomo che sbaglia”.
“La gente ha rallentato l’andatura per non perdersi lo spettacolo di una signora arrestata per strada…”, Bruna ricorda una battuta di Olympe. Oggi come allora, quanto peggiore, quanto più riprovevole una donna che sbaglia…
Pensando a Olympe de Gouges, che prima approva la rivoluzione, poi decide di opporsi perché, accusa, “avete scritto una costituzione così giusta da non avere il coraggio di applicarla, le donne ad esempio le avete dimenticate!”.
Un testo, quello sulla storia di Olympe, nel quale le attrici ben si riconoscono. “Ritrovo – dice Bianca, che interpreta una teatrante – la mia rabbia contro le ingiustizie. Anche se a me non appartiene forse l’ironia con la quale le ingiustizie vengono affrontate nel testo, mi ritrovo tantissimo nella rabbia… per l’abuso degli uomini su di te… e questo testo mi ha permesso di liberare tante cose che avevo chiuso dentro di me…”
E Bruna, che Olympe interpreta, in lei davvero si ritrova tanto: “Come lei non tollero le ingiustizie, ne ho viste tante anche se non ne ho subite… Molto si approfitta delle debolezze gli altri. La mia Olympe è un’anticipatrice di tutto, attualissima purtroppo, attualissimo il suo grido che dal 1790 arriva fino ad oggi”.
E ancora cita brani: “Non serve essere colpevoli per provare vergogna… La libertà d’opinione è un’utopia”. Guardandosi intorno…
E mi consegna, Bruna, con sguardo fiammante, copia della famosa Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, firmata da Olympe de Gouges. Inizia con una domanda: Uomo, sei capace di essere giusto?
Le Donne del Muro Alto. Tanta strada fatta in dieci anni. Una realtà che continua a crescere sia all’interno che all’esterno del carcere. Realizzata dall’associazione “Per Ananke”, che fin dalla sua costituzione nel 2007 si occupa di arte e di cultura, soprattutto di teatro, in particolare teatro sociale, lavorando nelle carceri, oltre che nei centri per la salute mentale, scuole di ogni ordine e grado, università. Il teatro, in particolar modo, diventa strumento di integrazione, educazione e riabilitazione.
Mi piace ricordare quanto mi disse Francesca Tricarico la prima volta che ci siamo incontrate, a proposito del mestiere del teatro. Ascoltate:
“Fare teatro è un modo per interrogarsi anche sulla nostra società… il teatro in carcere è un importante strumento di riflessione per il “fuori” quanto per il “dentro”. Con il teatro le attrici detenute hanno la possibilità di dedicarsi ad un’attività che permette di far arrivare la loro voce all’esterno, e di avere uno spazio d’espressione anche emotivo nel luogo per eccellenza del contenimento. In carcere può essere pericoloso lasciarsi andare alle emozioni così come contenerle sempre, cosa che può avere serie conseguenze psicologiche e fisiche. Il teatro offre questa libertà senza rischi, protette dalla storia da raccontare, dalla forma da utilizzare, con i tempi e il ritmo del racconto. E permettere di sfogliare quelle verità che proteggi con cura anche da te stessa…
Il teatro per ascoltare ed essere ascoltata, dare voce a chi non ne ha, combattere lo stigma sociale, fare politica… E tutto assume un senso più profondo quando riusciamo a farci ascoltare fuori da quelle mura…”
Ananke, nella Grecia antica, è la dea del destino. Un destino, qui, tutto da riprendere in mano. E oggi, ci tiene a sottolineare la regista, che dell’associazione è centro motore, il progetto rappresenta una concreta possibilità di formazione legata ai mestieri del teatro, oltre che un’occasione lavorativa retribuita, un prezioso strumento di inclusione sociale.
Bello, bellissimo, ma non immaginate quanta fatica negli anni anche nella ricerca di fondi. Per far riconoscere l’impegno delle attrici come vero e proprio lavoro, giustamente retribuito. Non è semplice, perché difficile trovare chi alle belle parole di encomio faccia seguire un aiuto finanziario. Anche solo l’offerta di un luogo stabile dove lavorare. “Cosa ci manca? Soldi e spazio, eppure il progetto d’inclusione può funzionare, e bene. A tante belle parole, non sempre seguono fatti”.
E quanto è alto ancora questo Muro, se Le donne del Muro Alto, questa volta le ho incontrate in un locale dello Spin Time, il palazzo occupato alle spalle di Santa Croce in Gerusalemme, che momentaneamente le accoglie. Ma qualche segnale arriva…
E si va avanti. La tourné va avanti, fra istituti penitenziari e università. Mentre mi chiedo chissà quali altri progetti stia macinando Francesca. E certo ancora ci sorprenderà…
Tornando all’incontro di Latina. Ancora rubo impressioni. Al termine degli spettacoli, i saluti, e poi i cancelli del carcere si sono richiusi alle loro spalle, immagino con quanto tremore, di donne ora libere. Portando con sé il ricordo della bella accoglienza avuta, come l’incontro con l’agente, gentilissimo, che, ricorda Bianca, “avrebbe voluto chiedere a ciascuna di noi: che visione avevate di noi, e ora che pensate di noi…”, e anche per lui Bianca sa avere pensiero di tenerezza, per la guardia che infine resta lì, mentre loro vanno via. Pensando alle persone che fanno la differenza in un sistema pur tutto da rivedere…
E parlando degli ultimi momenti di quella giornata, c’è un aggettivo che tutte pronunciano: straziante. Sì, le Donne del Muro Alto non trovano altre parole per descrivere quando, infine, sono uscite dal perimetro del carcere, per andare incontro alla loro ora normale vita quotidiana, lasciando “quegli altri” dentro. Nelle celle.
Ché è davvero terribile, e ve lo assicuro anch’io, salutare e staccarsi dalle persone lì dentro, quando sai dove le lasci…
E così lunedì mattina ho assistito allo spettacolo. Olympe. Lo avevamo annunciato (http://www.laltrariva.net/le-donne-del-muro-alto-4/ ) , il nuovo spettacolo de Le Donne del Muro Alto, la compagnia teatrale messa in piedi da Francesca Tricarico con le attrici ex detenute e ammesse alle misure alternative alla detenzione. Il mese scorso tornate in carcere, per presentare anche lì, da persone libere, il loro spettacolo.
Ora davanti a una platea di cinquecento ragazzi, studenti delle scuole romane. Al termine di un percorso fatto di incontri e confronti proprio con loro…
Solo pochi appunti, per registrare intanto l’entusiasmo di un’inconsueta platea di giovani, che ha saputo ben seguire e abbracciare d’attenzione le attrici, lì sul palco a parlare di prigionia, diritti e libertà… A far rivivere il sogno di Olympe, Olympe de Gouges, intellettuale, drammaturga e attivista impegnata nella difesa dei diritti civili nell’epoca della Rivoluzione francese che ha pagato con la vita il suo impegno politico.
Sarebbe da riascoltare e leggere tutto il testo dello spettacolo, tratto dal romanzo La donna che visse per un sogno di Maria Rosa Cutrufelli, così ricco di verità e d’emozioni, che le attrici hanno fatto palpitare della loro vita vera, come solo chi il carcere l’ha davvero vissuto credo possa fare. E c’è voluto molto coraggio a rientrare, sia pure solo nella finzione dello spettacolo, nel tempo della prigionia.
Ma voglio sottolineare brevemente almeno due passaggi.
Il racconto quanto mai ficcante del tempo morto del carcere, che è, oggi, come allora, ancora lo stesso. Un tempo circolare chiuso su se stesso, un tempo buio… sullo sfondo nero di una scena vuota di cose, che è anche la solitudine di chi è, isolata, nella cella accanto…
“Ho fame”… ripete a tratti una delle donne prigioniere. La fame.. qui metafora di fame di vita… Una fame immensa, che è bocca spalancata ad ingoiare il vuoto…
Perché il carcere questo è.
E poi il momento in cui, in un sussulto, una delle prigioniere rivendica il suo diritto a immaginare la libertà. Di non voler perdere questa capacità d’immaginazione, che è vita. Nel carcere più che mai.
E ho pensato a Mario Trudu, l’eterno ergastolano che ho inseguito per qualche lustro di carcere in carcere: Quarant’anni di prigionia ininterrotta e poi una morte cattiva e ingiusta… Quando gli chiedevo come si fa a resistere tanto tempo in un carcere, mi spiegava che lui era come scisso in due persone: quella che viveva la vita morta del carcere, e quella che costantemente immaginava di vivere fuori, ricordando e rivivendo, fin nei più piccoli dettagli, la vita libera sulle sue montagne. Lui che era pastore…
Sì, sarebbe da riascoltare e leggere tutto il testo dello spettacolo, con quello struggente, bellissimo inno alla libertà di pensiero, che Olympe fa rivendicando le lotte di tutta la sua vita, prima di essere portata a morire.
E guardare e seguire l’onda dei ragazzi, i loro applausi spontanei, il loro “tifo” sussultante, vi assicuro, è stato uno spettacolo nello spettacolo..
Riprendo un post di Francesca di fine marzo: “Il teatro è lo strumento politico più potente che io conosca, politico poiché al servizio della polis, della comunità, di tutti noi! E Mai come in questo momento ho sentito la responsabilità verso i più giovani, che ereditano un presente davvero complesso, ed è per questo che oggi nella giornata mondiale del teatro, e nazionale del teatro in carcere, voglio dire grazie a chi ci sta permettendo di portare questo prezioso strumento ai ragazzi di età, luoghi e contesti differenti! grazie a chi con noi dietro le quinte lavora affinché sia possibile”.
Ed è stato ben possibile.
scritto per il numero di maggio di Voci di Dentro
E mentre racconta sembra ancora riviverla tutta quella emozione, Bianca, giovane attrice della compagnia teatrale “Le Donne del Muro Alto”, che alla vigilia dell’8 marzo ha varcato i cancelli del carcere di Latina.
“Le Donne del Muro Alto”… compagnia messa in piedi dieci anni fa, a Rebibbia, dalla regista Francesca Tricarico, con attrici ex detenute e ammesse alle misure alternative. E per festeggiare questo decennio sono “tornate in carcere” per la prima volta come persone libere per presentare il loro nuovo spettacolo. Olympe. Tratto dal romanzo di Maria Rosa Cutrufelli, La donna che visse per un sogno racconta gli ultimi mesi di vita di Olympe de Gouges, intellettuale, drammaturga e attivista impegnata nella difesa dei diritti civili nell’epoca della Rivoluzione francese, che pagherà il suo impegno politico con il carcere e, infine, con la vita.
Bianca, Bruna, Betti, Daniela, e Chiara, che (sorpresa!) è giovane studentessa di scienza dell’educazione, che ha scelto di far parte del gruppo come “percorso di formazione umana profonda. Per avere la possibilità di riflettere e vivere cose che non accadono tutti i giorni sotto gli occhi di tutti…”. E guardandola, e ascoltandola, mentre spiega quanto sente di dover regalare parole d’autenticità, penso che se ci fossero più persone col bel suo sentire… forse un po’ più umano sarebbe anche il mondo…
Incontro Bianca, Bruna e Chiara, con la loro regista, durante una pausa per le prove per il prossimo appuntamento… e ancora tutte palpitano d’emozione. Non deve essere stato facile, mi chiedo e chiedo, ritornare, anche se in nuova veste, in un luogo che è stato dolore di prigionia. Ne era ben consapevole anche Francesca che, confida, per la prima volta ha detto loro: “Se è troppo forte per voi non la facciamo, questa rappresentazione. Ma l’abbiamo fatta”.
E sono ben forti le Donne del Muro Alto.
“Ritornare in carcere da libera? È stato un effetto surreale”, spiega Bruna. Come vivere un flash back. Il cancello, la porta d’ingresso, l’aria che manca quando sono rimasta chiusa fra due cancelli. Ogni piccola cosa ti ricorda tutto, tutto quello che, da detenuta, hai visto e vissuto. Ho avuto bisogno di tre giorni poi per riprendermi, ma forse ne avevo bisogno. Avevo una grande curiosità di provare a ritornare. Sono stata male, ma dovevo farlo e lo rifarò. Il coinvolgimento emotivo è enorme, per noi che abbiamo vissuto l’esperienza del carcere…ma non vedo l’ora di ritornare”.
Nella Casa circondariale di Latina ci sono stati due spettacoli. La mattina per i detenuti della sezione maschile, il pomeriggio per le donne dell’Alta sicurezza, dove un altro tuffo al cuore per Bruna, quando ha visto entrare due donne mano nella mano, e… “ho pensato a Medea, lo spettacolo dove entravo accompagnata per mano da una compagna… io l’ho vissuta questa scena…”
Già. Momenti di grande struggimento, forse difficile da capire per chi non ha avuto l’esperienza del carcere. Così gli uomini della sezione maschile, pubblico del primo spettacolo, sono nelle parole di Bianca “quei ragazzi” che… “li avrei voluti abbracciare uno ad uno, metterli tutti in tasca e portarli a casa”. E quanto grandi avrebbe voluto fossero le sue tasche, per accoglierli tutti. Ancora: “E il pomeriggio, l’emozione di recitare per le donne in Alta Sicurezza, proprio la vigilia dell’8 marzo, leggere il dolore sulla loro pelle…”. Dolore, che pensi sia stato anche il suo.
Bianca, col suo italiano bello e garbato che, brasiliana, assicura “mi ci sono messa d’impegno ad impararlo”. E c’è da credere a tutto l’impegno che ha messo nelle cose. Pensate che, entrata nella compagnia quando era detenuta a Rebibbia, cinque anni fa, dopo gli anni bui, ora ha un buon lavoro (in un bar di piazza Navona e ha appena preso diploma da sommelier!), ma continua a far parte della compagnia, lei che l’attrice avrebbe davvero voluto fare, spiega, per dare e prendere emozione. E ancora sembra voler avvolgere di tenerezza le persone che ha incontrato là dentro, quasi a proteggerle con quel suo carezzevole “ragazzi”, che solo chi sa della condizione di chi è dentro sa così pronunciare. Ancora commossa per l’attenzione di quei “ragazzi”, anche loro rapiti e coinvolti, immagino bene, nel sogno di libertà di Olympe.
Lo spettacolo era già stato messo in scena una prima volta a Rebibbia cinque anni fa. “Uno spettacolo ricco di riflessioni anche sulla nostra Costituzione, sui nostri doveri e diritti, oggi come ieri…”. Questa, spiega Francesca Tricarico, è l’ennesima versione. “Perché ogni volta si rielabora, si cambia, si va avanti, anche se questo è il testo in cui abbiamo avuto meno bisogno di inserire altro, un testo attualissimo, con quel carcere così tristemente attuale… Solo abbiamo trasformato i monologhi del testo in dialoghi, e introdotto il tema della relazione delle donne in carcere, cosa che nel libro non c’è”. Cosa, la relazione delle donne in carcere, cui da sempre Francesca rivolge il suo sguardo attento, pensando all’universo femminile, relativamente piccolo in carcere, che “paga” il dover vivere in un sistema tutto pensato al maschile. Soprattutto dopo aver compreso come queste donne subiscano uno stigma maggiore rispetto agli uomini. “Perché ancora oggi in Italia essere una donna che ha commesso un reato è una colpa più grande di quella di un uomo che sbaglia”.
“La gente ha rallentato l’andatura per non perdersi lo spettacolo di una signora arrestata per strada…”, Bruna ricorda una battuta di Olympe. Oggi come allora, quanto peggiore, quanto più riprovevole una donna che sbaglia…
Pensando a Olympe de Gouges, che prima approva la rivoluzione, poi decide di opporsi perché, accusa, “avete scritto una costituzione così giusta da non avere il coraggio di applicarla, le donne ad esempio le avete dimenticate!”.
Un testo, quello sulla storia di Olympe, nel quale le attrici ben si riconoscono. “Ritrovo – dice Bianca, che interpreta una teatrante – la mia rabbia contro le ingiustizie. Anche se a me non appartiene forse l’ironia con la quale le ingiustizie vengono affrontate nel testo, mi ritrovo tantissimo nella rabbia… per l’abuso degli uomini su di te… e questo testo mi ha permesso di liberare tante cose che avevo chiuso dentro di me…”
E Bruna, che Olympe interpreta, in lei davvero si ritrova tanto: “Come lei non tollero le ingiustizie, ne ho viste tante anche se non ne ho subite… Molto si approfitta delle debolezze gli altri. La mia Olympe è un’anticipatrice di tutto, attualissima purtroppo, attualissimo il suo grido che dal 1790 arriva fino ad oggi”.
E ancora cita brani: “Non serve essere colpevoli per provare vergogna… La libertà d’opinione è un’utopia”. Guardandosi intorno…
E mi consegna, Bruna, con sguardo fiammante, copia della famosa Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, firmata da Olympe de Gouges. Inizia con una domanda: Uomo, sei capace di essere giusto?
Le Donne del Muro Alto. Tanta strada fatta in dieci anni. Una realtà che continua a crescere sia all’interno che all’esterno del carcere. Realizzata dall’associazione “Per Ananke”, che fin dalla sua costituzione nel 2007 si occupa di arte e di cultura, soprattutto di teatro, in particolare teatro sociale, lavorando nelle carceri, oltre che nei centri per la salute mentale, scuole di ogni ordine e grado, università. Il teatro, in particolar modo, diventa strumento di integrazione, educazione e riabilitazione.
Mi piace ricordare quanto mi disse Francesca Tricarico la prima volta che ci siamo incontrate, a proposito del mestiere del teatro. Ascoltate:
“Fare teatro è un modo per interrogarsi anche sulla nostra società… il teatro in carcere è un importante strumento di riflessione per il “fuori” quanto per il “dentro”. Con il teatro le attrici detenute hanno la possibilità di dedicarsi ad un’attività che permette di far arrivare la loro voce all’esterno, e di avere uno spazio d’espressione anche emotivo nel luogo per eccellenza del contenimento. In carcere può essere pericoloso lasciarsi andare alle emozioni così come contenerle sempre, cosa che può avere serie conseguenze psicologiche e fisiche. Il teatro offre questa libertà senza rischi, protette dalla storia da raccontare, dalla forma da utilizzare, con i tempi e il ritmo del racconto. E permettere di sfogliare quelle verità che proteggi con cura anche da te stessa…
Il teatro per ascoltare ed essere ascoltata, dare voce a chi non ne ha, combattere lo stigma sociale, fare politica… E tutto assume un senso più profondo quando riusciamo a farci ascoltare fuori da quelle mura…”
Ananke, nella Grecia antica, è la dea del destino. Un destino, qui, tutto da riprendere in mano. E oggi, ci tiene a sottolineare la regista, che dell’associazione è centro motore, il progetto rappresenta una concreta possibilità di formazione legata ai mestieri del teatro, oltre che un’occasione lavorativa retribuita, un prezioso strumento di inclusione sociale.
Bello, bellissimo, ma non immaginate quanta fatica negli anni anche nella ricerca di fondi. Per far riconoscere l’impegno delle attrici come vero e proprio lavoro, giustamente retribuito. Non è semplice, perché difficile trovare chi alle belle parole di encomio faccia seguire un aiuto finanziario. Anche solo l’offerta di un luogo stabile dove lavorare. “Cosa ci manca? Soldi e spazio, eppure il progetto d’inclusione può funzionare, e bene. A tante belle parole, non sempre seguono fatti”.
E quanto è alto ancora questo Muro, se Le donne del Muro Alto, questa volta le ho incontrate in un locale dello Spin Time, il palazzo occupato alle spalle di Santa Croce in Gerusalemme, che momentaneamente le accoglie. Ma qualche segnale arriva…
E si va avanti. La tourné va avanti, fra istituti penitenziari e università. Mentre mi chiedo chissà quali altri progetti stia macinando Francesca. E certo ancora ci sorprenderà…
Tornando all’incontro di Latina. Ancora rubo impressioni. Al termine degli spettacoli, i saluti, e poi i cancelli del carcere si sono richiusi alle loro spalle, immagino con quanto tremore, di donne ora libere. Portando con sé il ricordo della bella accoglienza avuta, come l’incontro con l’agente, gentilissimo, che, ricorda Bianca, “avrebbe voluto chiedere a ciascuna di noi: che visione avevate di noi, e ora che pensate di noi…”, e anche per lui Bianca sa avere pensiero di tenerezza, per la guardia che infine resta lì, mentre loro vanno via. Pensando alle persone che fanno la differenza in un sistema pur tutto da rivedere…
E parlando degli ultimi momenti di quella giornata, c’è un aggettivo che tutte pronunciano: straziante. Sì, le Donne del Muro Alto non trovano altre parole per descrivere quando, infine, sono uscite dal perimetro del carcere, per andare incontro alla loro ora normale vita quotidiana, lasciando “quegli altri” dentro. Nelle celle.
Ché è davvero terribile, e ve lo assicuro anch’io, salutare e staccarsi dalle persone lì dentro, quando sai dove le lasci…
E così lunedì mattina ho assistito allo spettacolo. Olympe. Lo avevamo annunciato (http://www.laltrariva.net/le-donne-del-muro-alto-4/ ) , il nuovo spettacolo de Le Donne del Muro Alto, la compagnia teatrale messa in piedi da Francesca Tricarico con le attrici ex detenute e ammesse alle misure alternative alla detenzione. Il mese scorso tornate in carcere, per presentare anche lì, da persone libere, il loro spettacolo.
Ora davanti a una platea di cinquecento ragazzi, studenti delle scuole romane. Al termine di un percorso fatto di incontri e confronti proprio con loro…
Solo pochi appunti, per registrare intanto l’entusiasmo di un’inconsueta platea di giovani, che ha saputo ben seguire e abbracciare d’attenzione le attrici, lì sul palco a parlare di prigionia, diritti e libertà… A far rivivere il sogno di Olympe, Olympe de Gouges, intellettuale, drammaturga e attivista impegnata nella difesa dei diritti civili nell’epoca della Rivoluzione francese che ha pagato con la vita il suo impegno politico.
Sarebbe da riascoltare e leggere tutto il testo dello spettacolo, tratto dal romanzo La donna che visse per un sogno di Maria Rosa Cutrufelli, così ricco di verità e d’emozioni, che le attrici hanno fatto palpitare della loro vita vera, come solo chi il carcere l’ha davvero vissuto credo possa fare. E c’è voluto molto coraggio a rientrare, sia pure solo nella finzione dello spettacolo, nel tempo della prigionia.
Ma voglio sottolineare brevemente almeno due passaggi.
Il racconto quanto mai ficcante del tempo morto del carcere, che è, oggi, come allora, ancora lo stesso. Un tempo circolare chiuso su se stesso, un tempo buio… sullo sfondo nero di una scena vuota di cose, che è anche la solitudine di chi è, isolata, nella cella accanto…
“Ho fame”… ripete a tratti una delle donne prigioniere. La fame.. qui metafora di fame di vita… Una fame immensa, che è bocca spalancata ad ingoiare il vuoto…
Perché il carcere questo è.
E poi il momento in cui, in un sussulto, una delle prigioniere rivendica il suo diritto a immaginare la libertà. Di non voler perdere questa capacità d’immaginazione, che è vita. Nel carcere più che mai.
E ho pensato a Mario Trudu, l’eterno ergastolano che ho inseguito per qualche lustro di carcere in carcere: Quarant’anni di prigionia ininterrotta e poi una morte cattiva e ingiusta… Quando gli chiedevo come si fa a resistere tanto tempo in un carcere, mi spiegava che lui era come scisso in due persone: quella che viveva la vita morta del carcere, e quella che costantemente immaginava di vivere fuori, ricordando e rivivendo, fin nei più piccoli dettagli, la vita libera sulle sue montagne. Lui che era pastore…
Sì, sarebbe da riascoltare e leggere tutto il testo dello spettacolo, con quello struggente, bellissimo inno alla libertà di pensiero, che Olympe fa rivendicando le lotte di tutta la sua vita, prima di essere portata a morire.
E guardare e seguire l’onda dei ragazzi, i loro applausi spontanei, il loro “tifo” sussultante, vi assicuro, è stato uno spettacolo nello spettacolo..
Riprendo un post di Francesca di fine marzo: “Il teatro è lo strumento politico più potente che io conosca, politico poiché al servizio della polis, della comunità, di tutti noi! E Mai come in questo momento ho sentito la responsabilità verso i più giovani, che ereditano un presente davvero complesso, ed è per questo che oggi nella giornata mondiale del teatro, e nazionale del teatro in carcere, voglio dire grazie a chi ci sta permettendo di portare questo prezioso strumento ai ragazzi di età, luoghi e contesti differenti! grazie a chi con noi dietro le quinte lavora affinché sia possibile”.
Ed è stato ben possibile.
scritto per il numero di maggio di Voci di Dentro