Jasmine. Le sue lettere a prima vista sembravano innocue. Tutte esordivano con Caro Andrea, tutte si chiudevano con distratti saluti. Parlavano del più e del meno. Di cose ovvie, con un linguaggio semplice. Interrotto a tratti da brusche parole. Improvvise e ingiustificate. A volte irritanti, aspre o dolciastre, più spesso inquiete, come il sottile veleno che insieme con loro si andava insinuando nella sua vita. Brevi frasi come “il tutto a digiuno” o “insalata amara“. Oppure “una sedia bianca accanto al tavolo” e “i licantropi, si sa, non sanno salire le scale“, “né tende alle finestre, né cortine al letto, né gabbie d’uccelli“. Ancora: “il profeta a volte può modificare il piano di viaggio concordato“.
In una lettera, poi, erano apparsi buttati qua e là una serie di verbi: aspettare, spegnere, vegliare, preparare il frumento. Sembravano comandi. Trascorreva un mese fra una lettera e l’altra. Jasmine riusciva ad essere, pur nella sua assenza, una presenza decisamente puntuale. E una sera di luglio, leggendo la dodicesima lettera appena arrivata, Andrea fu come folgorato da un lampo. Capì. Che il vero messaggio che Jasmine voleva inviargli, era da ricercare in quelle parole sconnesse. Che sconnesse non dovevano essere affatto. Bastava ritrovare il filo, Andrea ne fu certo, che le collegava tutte insieme. Era una sfida e lui l’aveva accettata.