E’ proprio vero, quello che scrive Lauretta Chiarini: “Le cose che ti vengono a cercare…” (verità che è diventata titolo di un suo bel racconto https://www.laltrariva.net/le-cose-ch-eti-vengono-a-cercare/)…
Così, ancora una volta, un libro insabbiato da tempo riemerge dal mio disordine… Come facendosi strada da solo, spinto dall’urgenza delle cose… E cosa di più urgente, oggi, di una voce che arriva dalla Palestina.
“Arabi danzanti”, il libro, di Sayed Kashua… L’avevo comprato più di venti anni fa, all’inizio del nuovo secolo, che ancora il prezzo è scritto in lire prima che in euro, per cercare di capire qualcosa di più di una storia antica… e riprendere un filo conduttore sul percorso della letteratura araba dalla terra di Palestina…
Finito di leggere in due giorni, tanto mi ha preso…
E’ la storia di un giovane di un villaggio arabo che, per meriti scolastici, viene ammesso in un collegio israeliano. Studia, cerca di vestirsi, di comportarsi come un ebreo… ma ben presto l’impatto con la realtà fa esplodere in lui il conflitto fra il suo essere arabo e l’ansia di assimilarsi agli ebrei. Un conflitto senza via d’uscita che lo rende estraneo agli uni e agli altri, anche quando titolare della “carta blu”, che pur lo proclama cittadino israeliano…
Una storia che all’inizio ricalca la giovane vita dell’autore, nato da genitori palestinesi a Tirah, nel Nord di Israele, e che a 15 anni viene accettato all’Accademia israeliana per le arti e le scienze, riservata solo ai più dotati… e molto poi nella sua vita Sayed Kashua parlerà dei problemi che gli arabi israeliani devono affrontare.
“Arabi danzanti” è racconto ricco degli umori di due culture forse irrimediabilmente inconciliabili.
Sullo sfondo, mai dimenticata, la tragedia di una terra, quella di Palestina, che è la stessa di oggi… dove sai che in qualsiasi momento qualcuno può essere arrestato, cacciato di casa, ucciso…
“Mamma dice che potrebbe succedere che carichino tutto il villaggio su dei camion e ci portino da Beit Tzafafa in Giordania, mentre quelli di Tirah li trasferiscono in Libano. Mamma dice che in quel caso dovremmo almeno cercare di far caricare tutta la famiglia sullo stesso camion”…
E…
“dentro di me non c’è una sola goccia di speranza. Sono pieno di odio. Odio mio padre, per colpa del quale non ce la faccio a lasciare questo paese, perché lui ci ha insegnato che non abbiamo altro posto, che è meglio morire per la terra, che non si può rinunciare”…
Quello stesso padre che alla fine, da quando è tornato dall’Egitto… “ha perso la voglia di lottare. (…) Mio papà si è convinto. Dice che i palestinesi devono convincersi anche loro, che se fosse il presidente dello stato palestinese darebbe ordine di distruggere la moschea di Al-Aqsa (…) così da estirparne ogni reminiscenza nell’Islam e nell’intero mondo arabo. Mio papà dice che questa dovrebbe essere la vendetta palestinese per il silenzio arabo e islamico di fronte alla nostra sofferenza”…
“Più che lo scontro tra due culture molto diverse, c’è l’assenza di volontà di integrazione, l’accettazione scontata di un’incompatibilità”, ha scritto Stefano Nola in una recensione all’uscita del libro in Italia.
Su La Stampa di questa mattina leggo un titolo d’articolo: “Ecco perché è difficile credere alla pace…”.
Ma la risposta è forse già tutta nel dramma che si dipana in questo “Arabi danzanti”, che pure ha la bellezza del racconto tratteggiato con la leggerezza di chi non conosce toni urlati, né scontri frontali… che sa essere ironico, a tratti grottesco, malinconico… di una forza straordinaria…
L’edizione che ho letto è del 2003, edito da Guanda. Come fosse ieri… E non è un caso che proprio oggi “Arabi danzanti” mi sia venuto a cercare.