Eros Priore. Il suo nome forse non vi dirà niente. Ma la sua parabola, di persona “problematica” che in una dozzina d’anni passa da un TSO al carcere di Velletri, poi a quello di Secondigliano, e poi alla Rems di Subiaco, per approdare alla casa circondariale-casa di lavoro di Vasto, da dove il 23 gennaio scorso esce, a 61 anni, distrutto anche nel fisico, pochi giorni, per subito morire… è il racconto di un meccanismo feroce che non può lasciarci indifferenti.
Ma chi era Eros Priore? Cosa aveva combinato di tanto grave da finire anche in un carcere?
“Chi era… una persona certo poco gestibile, un caratteriale, ma che non aveva mai fatto male a nessuno. Una sorta di Forrest Gump, lo definirei… nel suo paese, Colleferro, era anche benvoluto… lo racconta anche il parroco che ne conosceva le fragilità” risponde Francesco Lo Piccolo, giornalista che da anni si occupa del reinserimento di ex detenuti, e dirige Voci di Dentro, rivista scritta da detenuti delle carceri abruzzesi. Che la vita di Eros da tempo aveva seguito, e questa vicenda “incivile e barbara” ha denunciato dalle pagine di Huffpost
Il TSO, il trattamento sanitario obbligatorio, Eros Priore, irascibile quando obbligato o se si sentiva “guardato storto”, lo subisce dopo un litigio, nel Centro di Igiene mentale di Colleferro… da lì inizia “un calvario fatto di comunità che definiva lager, legacci, psicofarmaci, visite mediche, perizie… per poi finire in carcere. Un calvario per motivi di sicurezza, per risocializzare – come prescrivono i giudici – una persona ritenuta socialmente pericolosa, caratteriale, visionario che si rifiuta di prendere psicofarmaci, che non accetta cure, comunità e restrizioni di alcuna natura…”.
Ma tutto accade a Eros, fuorché essere curato e tantomeno risocializzato. Perché non è cura la somministrazione costante di psicofarmaci quando esclude, come denuncia la sorella di Eros, l’attenzione all’umanità che pure è in ciascuno. Immaginate poi cosa può accadere quando “la cura” diventa il carcere, foss’anche una casa-lavoro, dove però Eros, invalido, non può lavorare. Lì alle problematiche di salute mentale si aggiunge dell’altro. Eros si ammala, è stato necessario asportare parte dell’intestino, subisce una stomia e lì rimane, in un’estate che trasforma quel carcere in una fornace (è il suo lamento…), con il sacchetto esterno per la raccolta delle feci più del tempo necessario per mancanza, quell’estate, di personale medico che potesse rioperarlo. Ha un tumore ai polmoni e nell’ultimo video-colloquio con la sorella si presenta reggendosi su una scopa, che gli fa da stampella… E viene rimandato a casa, il tempo di essere trasferito in ospedale per morire.
Se cerchi il perché di tutto questo, rischi di perderti nei dettagli, di burocrazie, vuoti, timori, non risposte… ma al di là di inadeguatezze individuali o collettive, alla fine la risposta è in un kafkiano meccanismo di rimpallo per cui alla fine, quando non si sa che fare, rimane il carcere. Un tremendo cortocircuito fra sistema giudiziario, penale e sanitario.
Una storia che, per chi l’ha seguita, non è facile buttarsi alle spalle. Così Francesco Lo Piccolo ha cercato di capirne di più, e mi racconta: “Sono andato questa settimana a parlare con la direttrice della casa lavoro di Vasto dove era internato Eros Priori. Mi ha spiegato che Priori era una persona bizzarra ma tranquilla (forse per i farmaci) e che in più occasioni ha fatto presente alla Sorveglianza che il suo stato di salute (resezione dell’intestino e applicazione del sacchetto per le feci) non era compatibile con la detenzione. La stessa incompatibilità era stata accertata anche dal Medico dell’Unità Operativa di Sanità Penitenziaria del Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria di Abruzzo e Molise. La risposta (ovvero la scarcerazione e l’invio a casa dalla sorella) purtroppo è stata sempre negativa, mi è stato detto, a causa della diagnosi di pericolosità sociale accertata dal Dipartimento di Salute Mentale di Colleferro che aveva definito Priori affetto da schizofrenia e delirio”.
Il controllo, dunque, prevale sulla cura.
La non cura in carcere, in generale, è tanta… basti dire che Francesco Ceraudo, pioniere della sanità penitenziaria, ha titolato il libro sulla sua esperienza nei lunghi anni nelle carceri italiane “Uomini come bestie”. Pensate poi come possano essere seguite e curate persone con problemi psichiatrici, anche solo considerando che la media nazionale di ore di presenza degli psichiatri in carcere è di 8,9 ore ogni 100 detenuti, 13,5 ore se parliamo di psicologi. “Lo psichiatra dedica meno di 5 minuti a settimana, lo psicologo 8 minuti a settimana per persona detenuta”, dicono i dati raccolti da Lo Piccolo che non si ferma nel portare avanti la sua denuncia.
Stiamo parlando di medie, ma valutate voi, se nell’universo carcere più della metà dei detenuti è in terapia psichiatrica…
Tornando alla triste storia di Eros Priore… Quasi una beffa, se proprio due giorni dopo la sua morte, arriva la pronuncia della CEDU, la Corte europea dei diritti dell’uomo, che condanna l’Italia per aver tenuto in carcere per più di due anni un cittadino con problemi psichici. Detenzione “illecita”, il carcere è “vietato” per i malati psichici.
Eros in carcere non sarebbe dovuto mai entrare. E quante sono le persone che in carcere ancora stanno, pur dovendo stare, se si volesse dar seguito alla pronuncia della CEDU, da tutt’altra parte. Ma tant’è. E dimentichiamo in fretta storie come questa.
Eppure, molto ci sarebbe da cercare, per capire e trovare strade.
Confrontandomi, ancora, con Francesco Lo Piccolo che, appena tornato dal suo ostinato indagare (ha ascoltato anche l’avvocato di Priore, il parroco di Colleferro…), mi ha detto: “Alla fine, resto della mia idea: un debole in una società dove è facile approfittarsi di chi non sa difendersi. E dove alla cura, all’aiuto e alla comprensione si preferisce la costrizione e il carcere. E che, pur di fronte all’evidenza, pur di fronte alla sua sofferenza anche fisica (dopo la resezione dell’intestino Priori non stava neppure in piedi) si è preferito non vederlo, facendo parlare le carte, il fascicolo, la fredda diagnosi. Un meccanismo infernale che si è protratto anche di fronte alla diagnosi di tumore all’ultimo stadio. Non c’è una responsabilità, ce ne sono tante, soprattutto di chi non sa guardare in faccia il prossimo, come peraltro faceva ed insegnava Franco Basaglia”.