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    “Aiutatemi a dare voce e giustizia a mio padre”

    Ricordate Antonio Ribecco? La prima persona detenuta morta per covid.. Non era neanche stato rinviato a giudizio e in carcere ha contratto la malattia… Suo figlio Domenico Ribecco da allora non si dà pace , e oggi si rivolge al Ministro Cartabia… perché si faccia chiarezza su una vicenda assurda…. e chiede giustizia per suo padre… con questa sua accorata lettera, che pubblico integralente perché vale la pena leggerla tutta… Una lettera di figlio, accorata e fiduciosa… che il Ministro ascolti…

    Egregio Signor Ministro,
    Egregia Professoressa Marta Cartabia,

    sono Domenico Ribecco, figlio di Antonio Ribecco, morto il 09/04/2020 dopo aver contratto il virus all’interno del carcere di Voghera.
    Sarebbe un piacere per me ottenere un incontro con Lei ma, immaginando i suoi tanti impegni, Le scrivo per portare alla Sua attenzione quanto è accaduto alla mia famiglia e, soprattutto, a mio padre.

    Sono consapevole che questa situazione di emergenza dovuta alla Pandemia si è riversata (e continua…) su tutto il paese e che non siamo gli unici ad aver subito un lutto in famiglia.

    Sono qui a chiederLe, semplicemente, di leggere la mia storia e possibilmente valutare la situazione giudicando lo stato di mio padre come un semplice cittadino, perché allo stato dei fatti era in attesa del primo grado di giudizio e avrebbe potuto affrontare i tre gradi per dimostrare la sua innocenza dalle accuse mosse a suo carico. Oramai in Italia siamo abituati così, anche se spetterebbe all’accusa provare la colpevolezza di una persona. Ma aldilà di questo, anche se detenuto, mio padre meritava il rispetto della sua umanità e dei suoi diritti fondamentali, della salute e della vita.

    Prima della triste vicenda giudiziaria, mio padre era completamente incensurato e quindi era alla sua prima esperienza carceraria, essendo sempre stato al di fuori di determinati ambienti. Mi sento di affermare senza esitazioni che le accuse mosse a suo carico erano totalmente infondate e dico ciò senza voler giudicare il lavoro di determinate figure che lavorano per lo Stato anche perché era nostro interesse e premura affrontare il processo a viso aperto. La mia rabbia – perdoni il sentimento che provo – è che tutto questo non ci sia stato concesso.

    Ci siamo trasferiti dalla Calabria in Umbria negli anni ’90 per garantire servizi migliori a mia sorella non vedente e per avere maggiori opportunità lavorative.
    Non abbiamo mai navigato nell’oro e mio padre ha sempre lavorato da onesto cittadino per dare un futuro alla sua famiglia. Appena trasferitosi a Perugia lavorava dalla mattina presto anche fino alle undici di sera ed ha continuato a farlo fino al giorno in cui è stato arrestato. Faceva lavori umili e di piccola entità nel settore dell’edilizia. Un piccolo artigiano che non ha mai partecipato ad una gara d’appalto e che non aveva mai svolto lavori di grossa entità.

    Abbiamo sempre confidato nella giustizia ed anche in questa situazione eravamo sicuri che i risultati sarebbero stati dalla nostra parte.

    Esistono le giuste sedi per giudicare una persona ed emettere sentenze e non voglio sprecare questa lettera per fare io il processo, ma sono qui a richiedere la Sua attenzione sulle motivazioni e sulle negligenze che hanno portato al decesso di mio padre, perché per come abbiamo vissuto la nostra tragica vicenda, si sarebbe potuto evitare.

    Le voglio raccontare che mio padre è stato abbandonato alla sua malattia e ad oggi ci troviamo totalmente sperduti di fronte a delle indagini che vanno a rilento e delle testimonianze che fanno rabbrividire.

    Molti detenuti della VII sezione di Voghera, hanno sporto volontariamente querela in quel periodo, per denunciare quanto stava accadendo nell’istituto e cosa comportamenti omissivi e negligenti stavano causando a mio padre; molti ci hanno raccontato che non è stata presa in considerazione la sua malattia ed anche dopo proteste ed evidenti sintomi di sofferenza, mio padre non è stato visitato tempestivamente da un medico, nonostante esplicite richieste; l’agente di polizia penitenziaria che ha assistito al diniego di visita, avrebbe fatto un esposto in sezione contro la condotta del medico.

    Altri detenuti ci mettono a conoscenza che non venivano forniti i dispositivi di protezione per prevenire il contagio ed ovviamente, visto il sovraffollamento di oltre il 180%, non era consentita la distanza di sicurezza, dichiarando tutti che la direttrice avrebbe imposto il non uso delle mascherine per non creare allarmismo, nonostante il 07/03/2020 fosse stato ricoverato il cappellano del carcere per coronavirus.

    Lo scorso gennaio i sindacati di Polizia Penitenziaria, hanno diffidato il carcere di Voghera con riferimento alla direttrice, interrompendo i rapporti sindacali per aver gestito male la prima ondata di emergenza sanitaria ed aver messo a rischio la vita di tutte le persone che vivono e operano all’interno dell’Istituto; che non è nuova a questi differimenti, ho potuto constatare sul web che diverse volte è stata soggetta di provvedimenti ed anche di remissione dell’incarico.

    Ancora non abbiamo ben capito come mai mio padre, dopo esplicita richiesta in sede di interrogatorio di garanzia, presentando la documentazione di mia sorella non vedente, non sia stato detenuto in Umbria o in regioni limitrofe come prevede l’art. 14 dell’ordinamento Penitenziario. Da Voghera ha presentato ulteriore richiesta al DAP per essere trasferito più vicino alla famiglia.

    Ovviamente nessuno poteva prevedere l’esplodere della pandemia, ma se si fossero rispettate le regole già previste dalla normativa penitenziaria, mio padre avrebbe potuto non essere trasferito a Voghera e magari non contrarre il Virus. Al 31/12/2019 gli istituti Umbri e Toscani non erano soggetti all’esplosivo sovraffollamento del Nord e forse sarebbe stato più consono mandare mio padre in altro istituto penitenziario.

    I diritti che sono stati violati sono quelli della salute, delle cure e della vita di una persona, di un detenuto così come di qualsiasi essere umano.

    Dal 3 giugno 2020 sulla vicenda di mio padre l’on. Roberto Giachetti ha depositato un’interrogazione parlamentare che non ha ancora avuto risposta. Gliela allego.

    Io credo che uno Stato di diritto, visto che mio padre si trovava in custodia presso un istituto penitenziario da soli due mesi ed in attesa di 1° giudizio, dovrebbe vigilare, sorvegliare e punire chi non esegue i propri compiti nel rispetto della legge e dei diritti dell’uomo, altrimenti è lo Stato stesso a divenire peggiore dei peggiori criminali che vuole e deve perseguire. E, in aggiunta, mio padre – come tutti coloro che ci trovano in custodia cautelare – era da considerare non colpevole fino a sentenza definitiva (art. 27, comma 2 della Costituzione).

    Le invio anche il mio grido di aiuto che ho scritto in un momento di rabbia ma che credo spieghi bene quanto è successo. Così come Le trasmetto la relazione che mi ha fornito il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma.

    Era un diritto di mio padre essere curato ed un nostro diritto di familiari essere informati, per tutelarlo e tutelarci e per essere al corrente di quello che stava succedendo.

    Non siamo potuti stargli vicino né fisicamente né con la giusta informazione.

    Ho (abbiamo) dovuto sopportare la malattia di mio padre a distanza, per ben 19 giorni di Terapia intensiva venendo a scoprire per caso del suo contagio. Non ho potuto stargli vicino come avrei voluto. Ho una sorella non vedente a cui ho dovuto spiegare nel modo migliore quello che stava accadendo, sempre se esiste un modo. Ho una mamma messa in ginocchio dalla vita, distrutta nel cuore e nell’animo per essere privata all’improvviso ed ingiustamente di un marito e di un figlio incarcerati e poi per la prematura scomparsa di mio padre in un contesto catastrofico.

    Ho dovuto comunicare io tramite telefono a mio fratello, anche lui in carcere, della morte di nostro padre. Non poterlo confortare in un momento così drammatico, mi creda, è stato struggente. Ho avuto veramente paura che potesse togliersi la vita per questa notizia. Così avrei dovuto vivere con i sensi di colpa di non aver fatto abbastanza per mio padre e di aver fatto del male a mio fratello.

    Ora io mi chiedo, è giusto tutto questo? E’ normale? Mio padre e la mia famiglia si meritavano tutto questo male?

    Supplico giustizia. Mio padre si poteva salvare. E’ stato per 10/15 giorni con febbre e sintomi chiari di covid con un caso già confermato all’interno dell’istituto il 07/03/20.

    Perché non meritava le cure? Perché non meritavamo di essere avvisati? Perché non sono intervenuti in tempo?

    Mi aiuti, Signora Ministra, a far luce su quanto è accaduto.

    Grazie per il Suo tempo, confido in una Sua gentile risposta.

    Con i più deferenti saluti

    Domenico Ribecco

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