Erica, Marina, Stefania, Regina, Emanuela, Dana, Hindia, Teresina, Fabiola, Yelena, Sholake, Rita, M.Teresa, Sarah, Manuela, Germia, Bavani, Giancarla, Nadia, Rosa, Egle, Elena, Flavia, Elena, Emanuela, Anna, Rosa, Maria Antonietta, Mariyana, Zornitsa, Edith.
Comincio dalla fine. Dai nomi delle trentuno donne della III sezione femminile del carcere di Torino, il Lorusso-Cotugno, che compaiono in coda all’appello rivolto innanzitutto al nuovo ministro della Giustizia, e poi ad autorità varie, associazioni, ma anche a tutti noi…
Entrano subito nel cuore del problema, quelle donne: “Il Covid-19 ha ufficialmente fatto ingresso nel padiglione femminile, che conta un centinaio di donne ristrette. Al momento ci sono alcuni casi di positività accertata, altre compagne sono in attesa dell’esito del tampone, altre invece sono state preventivamente isolate…”
E cosa chiedono. Intanto, il sostegno all’ampliamento della liberazione anticipata, così come fu dal 2010 al 2015 per rispondere al sovraffollamento e alla sentenza Torreggiani, “che non deve sembrarvi una richiesta ‘astrusa’, ma dovrebbe riconoscere a tutti noi la dignità di essere cittadini e non solo numeri”.
“Ragionevoli, legittime richieste” scrive l’associazione Yairahia che ha fatto proprie le loro parole, che “vanno a ricalcare le numerose e analoghe proposte formulate in questo anno da quanti abbiamo a cuore lo stato di diritto e la dignità delle persone detenute, con in più il vivere in prima persona la drammaticità della detenzione in era covid 19”. Vi invito a leggere l’intero testo: https://www.ildubbio.news/2021/03/10/326653/ (e, se volete, l’appello di associazioni e persone già dello scorso anno http://www.osservatoriorepressione.info/appello-sospensione-della-pena-tutti-detenuti-malati-anziani/?fbclid=IwAR3c-9Qkmz-6d8OJ1NDSW7hbqgUgbxK4qK4zPho2miutkgKNwmKEEvde9FI ).
Una lettera accorata, quelle delle donne di Torino, ricca delle parole di una rinata fiducia nelle istituzioni, ma anche nella società civile.
Le parole delle donne. Così rare se di donne detenute. Un motivo di più per fermarsi ad ascoltare.
Perché ‘carcere’ è nome che istintivamente evoca un universo maschile. Maschia è l’eco di voci e di volti che rimanda e a cui normalmente pensiamo. Il carcere non è luogo per donne. Sono “talmente poche”, le donne, rispetto al numero totale delle persone detenute… il 4% dicono le statistiche. Appena qualche migliaio… A pensarci bene, nella percezione esterna al carcere sembrano quasi scomparire, se non, forse, quando le pensiamo madri, e quando pensiamo ai loro figli… E’ accaduto anche a me, e me ne sono resa conto solo quando qualcuno mi ha chiesto se, nel mio interessarmi e prigioni e detenuti, avessi incontrato anche donne. E ho pensato, un po’ vergognandomene, alla conoscenza minima e quasi esclusivamente “letteraria” a cui mi sono fermata…
Le parole delle donne recluse. Più “rappresentate” che ascoltate o sollecitate a “raccontarsi”. E la differenza è enorme. Perché in un luogo come la galera, dove sei senza voce e subito diventi nulla, riprendersi la parola è la prima cosa da fare per riprendersi il resto.
Ce lo aveva ricordato un interessante e densissimo libro di qualche anno fa, “Recluse” (l’editore Ediesse) curato da Susanna Ronconi e Grazia Zuffa. Un testo di interviste (a donne detenute, alle agenti di polizia penitenziaria, al personale educativo) che ha l’obiettivo dichiarato del contenimento della sofferenza, prevenzione dell’autolesionismo e del suicidio, promozione della salute, e passa attraverso la narrazione di vite, che non è solo narrazione di quello che è nel carcere, ma ricorda e si riporta anche al fuori, passato e futuro. Anche quando quest’ultimo, il futuro, a volte ha la luce instabile del miraggio. Ricordandoci lo sguardo della differenza femminile…
“Mi volevano dare delle gocce per mettermi a dormire quando ho sbroccato, solo che grazie a dio ho avuto il potere di dire no…(…) Io un giocattolino nelle vostre mani non lo divento, perché la vita è ancora mia…”. “Io, venendo qui, tutto quello che vedevo nero, ho tirato fuori un arcobaleno…”. Donne…
Ridando dunque loro la parola. Che oggi, con questa lettera-appello, le donne prigioniere del carcere di Torino si riprendono.
Scorrendo le firme, scorrono i volti, anche nelle sezioni femminili, come ovunque in carcere, di un disperante universo multietnico. A comporre anche qui l’istantanea di quella “danza immobile” che è il carcere.
Le parole delle donne. Non è la prima volta che proprio dal carcere di Torino ne sono arrivate. E rimaste inascoltate.
Ma chissà, forse fidando nel nuovo ministro donna, che pure abbiamo visto, quando membro della Corte Costituzionale, andare in visita nelle carceri del nostro paese, e con qualcuna delle donne recluse parlare… E chissà, mi sono chiesta allora, se sia arrivato anche a lei, di là dai paramenti dell’accoglienza ufficiale, il tremendo odore delle carceri.
Fidando dunque di essere ascoltate, dal nuovo ministro della Giustizia che, l’anno successivo a quella visita, diventata presidente della Suprema Corte, in un incontro nella facoltà di Giurisprudenza della Sapienza a Roma, disse: “se lo Stato può, e talvolta deve, limitare la libertà personale dei soggetti, non può mai privarli della dignità e della speranza. Questo dovrebbe essere il punto non negoziabile di qualsiasi sistema penitenziario”.
Ancora. “Noi veniamo da una tradizione per cui il carcere è la pena per antonomasia, ma la Costituzione lascia un campo molto più aperto. La riflessione è in corso”. E chissà che proprio dalla crisi, auspicò, “non si sprigioni la fantasia, trovando nuovi percorsi”.
Ecco, forse è proprio il momento, di trovare nuovi percorsi. E iniziare, in attesa che la fantasia ci dia una mano, ad attuare quello che pure le leggi e la Costituzione già prevedono. Dignità, uguaglianza di tutti i cittadini, diritto alla salute…
Pensando alle accorate parole di Erica, Marina, Stefania, Regina, Emanuela, Dana, Hindia, Teresina, Fabiola, Yelena, Sholake… che non cadano ancora una volta nel vuoto.