Se c’è una cosa che la pandemia di questi nostri giorni ha svelato è “il fallimento del sistema sanitario, ospedale al centro e tanto privato, in alcune regioni più che in altre… e si capisce che la solitudine del medico di medicina generale, la pochezza delle reti sociosanitarie territoriali, la miseria che riscontriamo oggi in tante politiche di welfare e per finire all’orrore della strage dei vecchi, vengono da lontano”. Parole di Peppe dell’Acqua, che non usa mezzi termini, puntando il dito contro il tradimento della riforma sanitaria del ‘78, delle sue “umanissime parole: territorio, comunità, vicinanza, equità, libertà, sicurezza”. Parole che però non tutti hanno tradito, e mai come in questo momento vale la pena di andarle a cercare per provare a pronunciarle ancora… La storia di chi a quella riforma ha tenuto fede, l’ho trovata nel racconto dell’esperienza delle microaree nella zona di Trieste: “La città che cura, microaree e periferie della salute”, curato da Giovanna Gallio e Maria Grazia Cogliati Dezza (Edizioni Alpha beta Verlag). Un’affollata narrazione corale, in cui si intrecciano le voci di medici, infermieri, psichiatri, volontari, psicologi, insegnanti, filosofi anche, tutti a impegnarsi e a confrontarsi sullo sviluppo di una medicina che sia ancorata al territorio. Che non è cosa che si esaurisce, come in molti banalmente pensiamo, nella figura del medico di base, ma che è molto, molto di più. E’ partecipare insieme, da ruoli e professioni diverse, a un progetto che poi diventa patrimonio collettivo. E’ “la città che cura”. Potrebbe sembrare un testo per addetti, ma, vi assicuro, l’ho letto tutto d’un fiato, come un romanzo. Perché è vitale, vitalissima, testimonianza di vita…
La narrazione-riflessione si sviluppa intorno a vicende molto emblematiche: le storie di Gabriella, di Walt, di Edda… che come tanti altri uomini e donne abitano quella che chiamiamo “popolazione fragile”… Età diverse, diverse le vicende, diverse le malattie fisiche. In comune la solitudine, l’essere emarginati in quartieri che sono già margine. Il non riuscire nemmeno a immaginare che qualcuno, un giorno, si possa curare di loro… che significa già morire…
E invece un giorno “un pezzo di città” irrompe nelle loro esistenze. Che è quello che accade quando “vengono abbattuti i muri che continuamente si innalzano tra ospedali e territorio, tra medicina generale e specialisti, tra servizi sanitari e assistenziali”, e si entra nei quartieri, nelle case, nelle famiglie, se ne respira l’aria… si capisce cosa succede quando ci si ammala, o semplicemente si invecchia con tutte le cronicità che questo comporta. “E la malattia è colta dentro la vita e non in un letto d’ospedale” meglio non potrebbe spiegare Franco Rotelli.
Così nell’esistenza di Gabriella, più di settant’anni, dimessa dall’ospedale dopo una crisi ipoglicemica, e che sicuramente da sola non sarebbe riuscita a seguire la cura prescritta (“perché quanto più una persona è socialmente isolata, povera dal punto di vista non solo economico, ma anche culturale, tanto più le prescrizioni cadono nel vuoto” spiega Cogliati Dezza), entra Federica, Federica Sardelli, che è infermiera. Non è stato facile, racconta, ottenere la fiducia di chi è sempre vissuto nella povertà anche di relazioni, ma piano piano ce la fa, supera resistenze e ostacoli, entra in un rapporto quasi madre-figlia, avvia “le pratiche” per ottenere aiuti che da sola, Gabriella, mai avrebbe avviato, riesce a metterle in moto intorno un vortice di persone e cose… E Gabriella ritorna alla vita. Si cura, decide, sceglie, ha relazioni nuove, esprime desideri… fino a sorprenderci comparendo ben vestita e ben truccata, per festeggiare l’ingresso nella casa che era stato il suo sogno, ma che forse in tutta la vita mai ha davvero sperato di poter avere.
Walt, 54 anni, tante patologie, ma che non rientrava in nessuna delle categorie di pazienti di cui i servizi si fanno carico. Un paradosso, ma la sua malattia più grave è l’incapacità di chiedere aiuto, e va avanti nel vuoto, anche della sua famiglia che pure nulla chiede… finché un giorno… “le malattie non le sopporto bene, ma i desideri sì, ne ho sempre molti…”
E poi Edda, con i suoi silenzi, la vita confusa e terribile che potete immaginare di persona senza fissa dimora, abbandonata da tutti, un figlio che poi ritorna… e una casa dove infine abita…
E’ il miracolo del “progetto microaree”, la cui importanza, spiega Federica, “consiste nell’aver introdotto un criterio di coordinamento degli interventi necessari per affrontare i casi problematici in un’area piccola e ben definita. Un rione popolare, un insediamento in cui si concentrano situazioni di una certa gravità, dove si suppone di riuscire a cogliere al tempo stesso la persona e il suo ambiente di vita”.
Certo è tutto molto molto più complesso di come ho riassunto, e si mette in gioco tanto: cosa significa essere medico, la professione di ciascuno, le tensioni emotive, affettive, anche, che si creano in dinamiche dove tutto è contrattazione e mediazione continua…
Gabriella, Walt, Edda… seguiti nel loro ultimo brano di vita, a un tratto si aggravano, muoiono…
“Il paradosso è che agli occhi di un profano la cura sembra fallire” parlando di Walt spiega Pier Aldo Rovatti (docente di filosofia, direttore della rivista out out). “No, non l’abbiamo guarito perché la malattia di cui è morto era incurabile, mentre dall’altra malattia, la deriva inerziale, l’angoscia di vivere, da quella Walt è guarito. Ed è questa la cosa che gli ha permesso di affrontare in maniera diversa la morte, e non è cosa di poco conto”.
Walt, Gabriella, Edda, e tanti altri che, nel sistema che abbiamo costruito respinti dalla vita, sul punto di morire nella vita si sono calati, e pur tanto malati sono tornati a far progetti, a realizzare sogni…
Cosa sarebbe stato delle loro esistenze senza tutto quello che nella “microarea” si è mosso per loro? Si sarebbero spente in quella sorte di pre-morte a cui abbandoniamo le Gabrielle, le Edde, i Walt che nessuno vede…
Un miracolo che non poteva che accadere nella città di Trieste, che non ha perso memoria dello straordinario esperimento che ha trasformato l’assistenza psichiatrica “ricollegando l’esistenza delle persone ai mondi quotidiani”. A Trieste, dove poi l’esperimento è stato esteso alle altre branche della medicina, e sono nati servizi in grado di accogliere persone con cronicità e malattie varie, ma soprattutto ammalati dell’emarginazione che la malattia a sua volta produce.
Guardandosi intorno… non vi sembra un modello da prendere ad esempio? Per tante altre zone del paese dove forte è la disuguaglianza sociale e di salute. E ci sarebbe da farlo in fretta, adesso che si è svelato in tutta la sua drammaticità il fallimento del sistema “ospedale al centro e tanto privato”.
Alla fine della lettura del libro mi è rimasta impressa soprattutto la storia di Gabriella, e mi è sembrata una coincidenza significante il fatto che “Gabriella”, come ricorda Peppe Dell’acqua nel suo articolo che al progetto delle microaree rimanda (http://www.news-forumsalutementale.it/la-solitudine-dei-medici-di-base/), era il nome di battaglia di Tina Anselmi partigiana. Tina Anselmi, ministro della salute quando fu approvata la riforma sanitaria alle cui “umanissime parole” è urgente tornare…
Ah! “La città che cura” è anche un film, di Erika Rossi, che è cronaca di questa voglia e capacità di curare e prendersi cura, di far sentire ogni persona parte viva del suo quartiere, del tessuto sociale, e non solo un paziente cui prescrivere medicine…
Modello utopico? Rivoluzionario? Per fortuna qualcuno le rivoluzioni ancora riesce a immaginarle…